Rosso prevalente
- Autore: Maria Teresa Atzori
- Categoria: Poesia
- Anno di pubblicazione: 2012
Che cosa è l’amore? Annosa domanda a cui rispondiamo in modo differente a seconda dell’età, dell’esperienza, dell’evoluzione psicologia e spirituale, del temperamento e perfino dell’identità di genere. Siamo tutti d’accordo sulla sua potenza e sulla sua fascinazione. L’amore ha un colore: che sia passione o dedizione, carità, compassione, nelle sue gradazioni intense o delicate fino a sfumare nel rosa più etereo e perlaceo, esso è rosso, lunghezza d’onda centripeta della luce, attrazione e coagulazione, abbraccio, inclusione.
Rosso prevalente è il titolo della silloge di Maria Teresa Atzori (edizioni Il Murice, p. 57, 2012), con prefazione di Giorgio Bàrberi Squarotti (ormai trapassato), critico eminente ed egli stesso poeta, che ha voluto chiosare questo testo.
La dedica dell’autrice recita: "A chi non ha paura di amare". Lo sappiamo dal mito: Eros teme di mostrarsi a Psiche, vuole incontrarla al buio nelle loro notti appassionate. Psiche nel tentativo di illuminare il volto dell’amato lo brucerà inavvertitamente con una goccia d’olio sfugguta da una lanterna; il bellissimo dio fuggirà spaventato. Maria Teresa Atzori è consapevole del fatto che nessun amore è esente dal rischio e soprattutto dal dolore. Scrive:
"Nell’incognita di sempre / questo amore mi ghermisce /con un passo di volpe / che irride alla sua preda".
Eccoci introdotti nel dramma con intensità fin dalla prima lirica, con le delizie dell’essere ghermiti, con i tormenti dell’essere preda. Nuove originali metafore vengono proposte al lettore, calde e veramente rouge.
"Con mani audaci /mi trattiene".
Il consiglio è di sorvolare ogni ragione e di non chiedere alcun perché. Il mistero è parte dell’esperienza, addirittura iniziatica, in quanto il cammino amoroso è strada di conoscenza e autoconsapevolezza. Meglio sarebbe se il processo avvenisse in due simultaneamente, se entrambe le parti, il maschile e il femminile, camminassero all’unisono e fossero sempre complici nella scoperta reciproca. Difficilmente questo avviene. Eppure "Su binari paralleli / siamo viandanti". Per esperire, assaporare lacrime e condividere sorrisi nell’apice amoroso.
Soltanto poi viene scoperto un perché:
"Perché la luce / colma la distanza".
Lo scopo, il senso è dunque la vicinanza, non solamente fisica. Attraverso i corpi si toccano le anime. Attraverso la passione viene educato il sentimento. Attraverso l’attesa e la propria dedizione si attua la comprensione del valore dell’altro:
"Sono acqua trasparente / pura mi offro / a te che speri".
Saper colmare il bisogno, porre fine alla solitudine esistenziale è la suprema dolcezza del dono.
"Sempre / mi cloni per tentarti / labbra, seni, mani / per i tuoi orgasmi".
Ma altrettanto amara è l’ora dell’inganno, quando "il casto desiderio precipita / negli abissi della menzogna". Casto non implica rifiuto del corpo, ma al contrario spontaneità dell’offerta, ineluttabilità del desiderio, ineludibile e totale:
"Nella foschia autunnale / sono perduta / come una foglia sull’asfalto / che trema fradicia".
I versi possiedono forza tragica, esprimono la propria consumazione, come le strofe di Saffo.
Se poi l’immagine è quella della morte di un proprio caro, la tensione diventa quasi insostenibile e di bellezza trasfigurante:
"Sono al tuo capezzale. / Avevi rifinito la bocca con i fiori / adesso cadono petali sfiniti / ho strappato l’edera dal petto / per non morire".
E mentre un corpo si spegne: "Felici oltre il guanciale / sento le rondini garrire", perché l’amore è più forte della morte.
Il maestro del cuore e dei sensi insegna il piacere, attraverso il piacere e le sue braci si attua la fusione panica nel tutto:
"Santa e peccatrice / ecco chi sono / sono l’abisso e il sole / incarno l’infinito".
Un amante perde il suo volto, sebbene paradossalmente indelebile, diventa lo strumento della complementarietà dei contrari, santità e "peccato" non sono più separati; in-finito è la condizione spirituale senza confini.
L’amore non è del tempo. A prescindere dalla sua durata computata in anni, mesi o giorni, resta. Così in una poesia finale, Daliniana, che richiama il non tempo degli orologi molli di Salvador Dalì, la più apprezzata da Bàrberi Squarotti, M. Teresa Atzori consegna l’amore alla primavera, la stagione archetipica che lo rappresenta:
"Amore disperato / sei libero di andare / verso la primavera / la tua stagione / casa fra i rami / sempre in fiore".
È struggente l’addio che non è un addio, ma memoria perenne sempre in fiore; saggio il lasciare andare; libera e leggera l’anima che non si attacca, proprio come in un esercizio buddhista di rinuncia ed equidistanza da piacere e dolore, ma non esaurisce l’esperienza, per sua natura inesauribile, che permane nel sempre:
"continui a sorvolare / questo tramonto rosso / e nidifichi / sul mio albero/ autunnale".
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