Scritta, diretta e interpretata da Eduardo negli anni Sessanta del secolo scorso, ”Sabato, Domenica e Lunedì” è una commedia incentrata su un tema, quello dei rapporti familiari, che attraversa costantemente l’opera del grande drammaturgo.
Nella versione curata da Toni Servillo per la parte teatrale e da Paolo Sorrentino per la parte televisiva, lo stile registico dei due autori, fedele al copione eduardiano, sembra convergere verso un effetto ulteriore, di scarnificazione estrema della scena, che diventa agli occhi dello spettatore l’espansione dei pensieri e delle ossessioni dei personaggi, mescolando con felice resa espressiva un linguaggio cinematografico di primi piani e controcampi e un linguaggio teatrale concentrato soprattutto sulla mimica e la gestualità.
Per un effetto folgorante di straniamento, i protagonisti della vicenda appaiono come isole di un arcipelago familiare, prossime e al contempo remote l’una dall’altra nel vuoto di incomunicabilità che le circonda.
Ne deriva un effetto scenico di grande suggestione: le parole, i dialoghi dei personaggi producono un rumore che equivale a un silenzio, un’impasse comunicativa; per contrasto, i gesti, i tic, la mimica facciale che si intercalano alle parole nelle forme di una comunicazione contrassegnata dagli aloni del non detto, ne evidenziano i moventi e gli impulsi più profondi.
La famiglia per Eduardo è l’epicentro drammatico e contraddittorio dei rapporti umani; il microcosmo degli affetti e delle passioni elementari che, complicandosi, si dilatano nel macrocosmo della vita civile e sociale. In ”Napoli milionaria” le aberrazioni di una società sfigurata dalle atrocità della Guerra si manifestano drammaticamente attraverso gli sconvolgimenti della famiglia di Gennaro Jovine. Un umile basso dei quartieri popolari napoletani assurge a teatro (centro di visione) di una squassante, universale mutazione antropologica e storica; una lunga nottata di cui si attende la fine (che forse non arriverà mai).
L’ingenua devozione di Luca Cupiello per il presepio, al cui allestimento egli dedica ogni energia, è una fuga disperata, nell’incanto e nella tenerezza di un’infanzia irraggiungibile, dalle amarezze domestiche contrassegnate in particolare dal rapporto conflittuale tra padre e figlio.
Così pure in ”Mia famiglia” il conflitto permanente sembra l’unico linguaggio a cui i componenti del nucleo familiare affidano la possibilità di un dialogo e indirettamente, la ricerca e la conferma di un legame affettivo. E ne ”Le voci di dentro” l’amore possessivo dei membri della famiglia Cimmaruta sconfina, per effetto di un sogno lucidissimo e a suo modo chiaroveggente del loro vicino Alberto Saporito, nella sfiducia reciproca spinta fino all’accusa e alla delazione.
L’amore dunque è il sentimento dominante ed esclusivo della vita familiare, e purtuttavia, sembra non bastare. Sembra anzi che ostruisca, intorbidi e raffreni ogni legame al punto da impedirne uno sviluppo naturale e positivo, causando una serie di effetti imprevedibili e nefasti che, amplificati dalla consuetudine della routine domestica, precludono la possibilità di un’autentica comunione umana fondata su rapporti limpidi e sinceri. Che farsene di tutto questo amore, sembrano implicitamente domandarsi questi personaggi, se la sua forza dirompente scatena fratture e implosioni piuttosto che evolvere nella stima, nel reciproco riconoscimento, nel volersi bene (un’eco sottile delle categorie catulliane dell’”amare” e del ”bene velle”, che drammatizzano nella poesia del grande lirico latino la controversa fenomenologia amorosa, riecheggia forse anche nell’opera eduardiana?)
In ”Sabato, Domenica e Lunedì” tutti questi motivi si compongono nella cucina di una casa signorile napoletana. Qui, nel volgere di un fine settimana, scandito dal ritmo lento del ragù messo a bollire, si consuma il dramma familiare di don Peppino Priore e di sua moglie Rosa, a cui si intrecciano screzi e conflitti che investono anche gli altri membri della famiglia. La scansione in tre atti della commedia, coincidente con il tempo spazializzato della vicenda, articolato nei tre giorni della settimana evocati dal titolo, recinge lo spazio (trinitario, si direbbe) della religione familiare, avente come culmine il pranzo familiare, alla presenza di parenti e amici. In questo tempo consacrato al rito familiare, i pensieri molesti di don Peppino, seguendo i ritmi cadenzati della pietanza che arde sul fuoco, si dilatano nel tempo interiore della sua mente turbata, alimentati dal rancore, dal dubbio e l’insofferenza, esplodendo proprio quando la pasta al ragù viene servita in tavola in una sequela di accuse e recriminazioni contro la moglie e l’amico di casa, il ragioniere Ianniello; rei, secondo don Peppino, di intrattenere una relazione fedifraga. L’onore tradito del pater familias, il supposto adulterio, i valori dell’amicizia e dell’ospitalità vilipesi nel proprio indiscusso Regno familiare rischiano, nella durata di un pensiero nocivo come un veleno e impalpabile come i sogni, di volgere in cupa tragedia l’atmosfera sacrale del pranzo domenicale.
Nella versione di Servillo e Sorrentino, il dramma di casa Priore è ancor più amplificato da una scenografia scabra e impersonale, che riflette un orizzonte mentale abitato dai cattivi pensieri, che rapprendendosi, assumono la forma di tic ossessivi, sguardi malevoli, parole astiose che l’inflessione dialettale accentua e scalfisce. Anche gli scarni oggetti di scena (sedie, tavoli) paiono relitti di un paesaggio frantumato. L’insincerità, come erba cattiva. attecchisce, invade ogni cosa, smascherando la religione familiare nella sua consistenza di illusoria, forzata messa in scena (e del resto, il personaggio dello zio Raffaele, amante del teatro e attore dilettante, che diserta il pranzo per correre a vestire i panni di Pulcinella in uno spettacolo di dilettanti, non contribuisce forse ad abbattere la quarta parete che separa vita e finzione, svelando la rappresentazione effimera che si cela dietro ogni ”recita” familiare?) Chiuso nello spazio della prigione mentale e delle sue infinite finzioni e rappresentazioni, incapace di manifestarsi nella sua essenza autentica di desiderio e di offerta, anche l’amore sincero si riduce alla manifestazione di un’assenza (la scena spoglia), precludendosi la possibilità di espandersi , di realizzarsi, se non per l’appunto nelle forme deliranti e artificiose del suo contrario: il disamore.
Intanto in casa Priore la nottata è passata. La sacralità (sciupata) della cerimonia domenicale ha ormai ceduto il posto al lunedì, alla prosaicità di una nuova settimana di lavoro e di preoccupazioni. Peppino Priore, prima di tornare al suo accorato negozio di abbigliamento sul Rettifilo, ha il tempo di risvegliarsi dai cattivi pensieri e di guardarli dal baratro che gli avevano scavato intorno; di chiarirsi con l’incolpevole ragioniere Iovine, e di riappacificarsi con la moglie. La tragedia si è arrestata un attimo prima del suo compimento. Il rancore e l’incomprensione hanno trovato nel furore uno sgorgo e una catarsi che si distende alle prime luci del nuovo giorno sull’ambiente domestico e sui volti dei due coniugi, disponendoli a guardarsi di nuovo negli occhi, in un colloquio finalmente sincero e disarmato, che porterà alla superficie le ragioni insulse e pretestuose di quel disamore, e con la rivelazione di un antico dramma segreto che li accomuna, le radici profonde da cui tanti anni prima era nato l’amore.
Se non che il lieto fine delle commedie eduardiane non è mai del tutto lieto. Se l’amore resiste, riuscendo a trovare ogni volta la strada giusta per tornare a casa; la stima, la fiducia incontrano invece infiniti intoppi e resistenze, sicché un’ombra, ancora, di non detto, un retrogusto amaro continua a celarsi, flebilmente, sotto la crosta delle parole più sincere, dietro la facciata di una armonia familiare faticosamente ricomposta. Prima di reimmergersi ciascuno per suo conto nei doveri della quotidianità, i coniugi Priore ormai riappacificati, si rinnovano la promessa che risale ai primi tempi del loro matrimonio. Ma quando donna Rosa, nella sequenza conclusiva, distogliendo con un attimo di ritardo lo sguardo dai piatti del servizio buono da riordinare per un’altra domenica, si affaccia al balcone per salutare come un tempo il suo uomo prima che svolti l’angolo della strada, don Peppino è già scomparso dietro il fondale di un altro giorno uguale, di illusioni e incomprensioni, nell’inesprimibile solitudine della vita umana.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Sabato, domenica e lunedì”: da Eduardo De Filippo a Servillo e Sorrentino
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