Saggio sulla stanchezza
- Autore: Peter Handke
- Genere: Filosofia e Sociologia
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Garzanti
Con Peter Handke siamo abituati a sorprenderci, ad aspettarci l’inusuale e l’anticonvenzionale, e anche in questo caso siamo accontentati. Con “Saggio sulla stanchezza” (Garzanti, 1991) ci troviamo di fronte ad un interrogatorio che l’autore fa a se stesso come si trovasse sotto processo o a dover confutare delle contraddizioni, tipiche tra l’altro della sua personalità, di fronte al mondo della letteratura e alla società. La stanchezza di cui parla è un pretesto utilizzato per andare a pescare nella sua autobiografia degli episodi che mettano in luce la complessità della sua personalità.
Anche in quest’opera siamo di fronte all’inquietudine di uno scrittore che sente l’esigenza di esternare in letteratura i suoi disagi interiori, come già fatto in precedenza con la morte per suicidio della madre in “Infelicità senza desideri” (1972). È evidente quanto Handke senta il bisogno di un’autoanalisi e di qualcuno che lo indirizzi passo dopo passo verso la soluzione, che anche qui manca. Ed è lui stesso che si pone le domande a cui rispondere e a correggerne il tiro, nonostante non riesca sempre a cogliere il bersaglio. Ma il fine è il viaggio, non la meta. Handke non dà risposte, anche perché non siamo di fronte ad un saggio vero e proprio, ma ad un uomo che ci rende partecipi di alcuni episodi della sua vita che egli ritiene salienti per sviscerare questo ambiguo sentimento che, a diversi livelli, fa parte dell’intimo di ogni uomo.
La stanchezza, spesso intesa in senso più ampio come noia, dolore, separazione, spossatezza romantica, arma di seduzione, viene inserita man mano nella sua infanzia, nel tipico sfinimento del bambino in chiesa con i genitori, poi in un adolescenziale abbattimento e fastidio per la fine di una relazione di coppia, passando per il nobile sfinimento dato dal lavoro fisico mentre aiutava i suoi genitori a costruire la loro futura casa. A questo punto prende il sopravvento il lirismo di Handke che, attraverso passaggi spesso volutamente contorti, esalta narcisisticamente la stanchezza dello scrittore elevandolo al di sopra della società e, per quanto ritenga puro e nobilitante il travaglio dell’operaio e neghi completamente l’esistenza di una stanchezza borghese (“loro [i borghesi] la considerano una sorta di mala creanza, come l’andare scalzi”), non riesce a trattenere la presunzione del porsi su un piedistallo, al di sopra degli uomini a giudicarne azioni e pensieri, come fosse dotato di un dono divino. Il linguaggio utilizzato dà ancora più spessore al ruolo di cui si insigne l’autore: poetico, lirico, complesso, sofisticato e filosofico, come cercasse ad ogni costo di essere compreso solo in parte, solo da pochi, e ammirato e venerato dagli altri.
Da un lato quindi troviamo un Handke che cerca un significato universale nella stanchezza degli uomini, in cui ognuno si possa riconoscere e possa vivere in prima persona le vicende dell’autore, il suo lato più umano; dall’altro ci regala un autore volto all’immortalità, alla ricerca di una prosa poetica unica che entri prepotentemente nell’olimpo della letteratura per rimanerci, un messaggero per l’umanità.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Saggio sulla stanchezza
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