Com’è scrivere un libro? In chat un’amica, sapendo della mia passione per la scrittura e del libro appena terminato, mi ha posto questa domanda; io, rispondendole, ho perso la cognizione del tempo tanto che la risposta è divenuta prima un lungo ragionamento, poi un breve scritto che ora mi appresto a condividere.
Scrivere un libro - le ho confidato - è come togliersi tutti i vestiti di dosso e iniziare a camminare per strada nudo, sapendo che da quel momento in poi chiunque, conoscenti e non, potrà guardarti come mamma ti ha fatto. Aspetto eccitante, questo, e spaventoso allo stesso tempo. E’ un po’ come per un religioso entrare nel proprio luogo di culto sapendo d’aver peccato, ma sapendo anche che presto verrà assolto dai peccati commessi attraverso le preghiere.
Scrivere un libro è mettere nero su bianco chi sei, soprattutto se è il primo. C’è tanto di personale nel primo poiché non si ha ancora la maturità, l’esperienza e le conoscenze per distaccarsi completamente dal proprio vissuto. In ogni riga, d’istinto, si attinge dal contenitore della propria vita e mentre lo si fa, in un primo tempo si è felici - ci si sente come quando si va in terapia e si vomita tutti i tormenti che ci tengono ostaggio - ma dopo ti chiedi: «Sarò stato abbastanza bravo da farmi capire? E loro, le persone che mi leggeranno, sapranno comprendermi?».
Quando si scrive un libro non si può, come nella vita, scegliere a chi darsi e a chi no. Qualcuno volterà quelle pagine con cura, senza sgualcirle; qualcun’altro invece lo farà con irruenza, le stropiccerà o peggio le strapperà con la presunzione d’aver capito tutto, quando invece nemmeno tu hai capito tutto.
Scrivere un libro è una soddisfazione, vederlo finito tra le tue mani un orgoglio, è un figlio che è nato. Ti viene voglia di coccolarlo, di parlargli, di insegnargli come crescere secondo quelle che sono le tue esperienze. E’ difficile restare lucido e sobrio quando parli di lui. La gente ti chiede com’è, ma l’hai scritto tu e a te piace, ovvio. Però tentenni, non ne sei convinto perché non sei sicuro di riuscire ad essere obiettivo, di un figlio non dirai mai che è brutto è pur sempre un figlio.
Quando scrivi un libro, dopo ti chiamano scrittore. Scrittore è una bella parola, ma scrivendo e continuando a scrivere, e leggendo e continuando a leggere, ti rendi conto che il mondo è davvero pieno di scrittori: del passato, del presente e del futuro e tutti sono più bravi di te. TUTTI! Così un’ennesima domanda ti raggiunge per assillarti e soffocarti: «Chi sono io per chiamarmi così? Cosa so? Quanto so? Niente in realtà. Cerco e studio ciò di cui ho bisogno, ma il resto non lo so... non so tutto, non posso sapere tutto. Le parole che ho in canna sono poche, dunque ne cerco sempre di nuove, ma le scelgo con lo scopo di infilarle in un determinato contesto, non le conosco davvero tutte e questo mi fa sentire non all’altezza».
Così vado su internet, in cerca delle immagini degli scrittori che hanno fatto la storia della letteratura, a caccia di somiglianze fisiche tra me e loro: linee del viso, posture. Anch’io tengo la mano così, anch’io spalanco gli occhi a quel modo… come se trovando punti estetici in comune, fossi autorizzato a crederci. Poi però spengo tutto, vado allo specchio e la mia faccia non sembra quella di uno che scrive libri. Mi servirebbero degli occhiali, dovrei cominciare a fumare sigari, parlare pacatamente, frequentare certi ambienti e iniziare a interessarmi di politica; perché è così che bene o male hanno fatto, o fanno, tutti i più grandi. Io però non sono così e la mia confusione aumenta, mi dico: «No, non sono degno di chiamarmi scrittore solo perché ho scritto un libro. Un libro lo può scrivere chiunque...» Anche se non è vero, un libro non lo può scrivere chiunque.
Scrivere un libro, alla fin fine, com’é dunque? Insiste la mia amica, ormai smarrita per il mio continuo divagare.
Diciamo che è un po’ come infilarti la cartella sulle spalle e farti accompagnare dai genitori al primo giorno di scuola. Arrivi e ti guardi intorno perso, non conosci nessuno e non sai cosa ti aspetta. I tuoi compagni dell’asilo, quelli con cui ti divertivi tanto fino a pochi mesi prima, non ci sono più; delle maestre che tanto ti piacevano non resta che un tiepido sorriso nella memoria e all’orizzonte vedi solo professori con lo sguardo severo e la bocca piena di nozioni serie. La campanella suona, tu sobbalzi poi lasci la mano dei tuoi e vai: è la prima elementare e davanti a te ci sono decenni di cose da imparare ed esperienze da fare, per diventare grande. Hai tanta paura, però la curiosità ti spinge a oltrepassare l’enorme portone che vedi di fronte e quando lo fai, provi una sensazione strana che non è ancora gioia, ma forse lo diventerà.
Ecco com’è stato, per me, scrivere un libro... amica.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Scrivere un libro: ecco come si sente uno scrittore
Esattamente Guido, scrivere è come mettersi a nudo, ed il rituffarsi nelle memorie anche più scomode dei meandri della nostra mente, a volte, è anche un farsi male volutamente, affinché le urla concitate si depositino sul foglio con l’intento di sopirne le tracce interiori. Come tu citi, scrivere non è da tutti, ma credo che sia compito di ogni talento, non essere avidi delle proprie creazioni e donare a chi lo desidera, la gioia di soddisfare questo suo sogno, anche se da parte dello scrittore, dev’esservi senso di responsabilità per se stesso e coloro che ne verranno coinvolti.