Self-Portrait. Il museo del mondo delle donne
- Autore: Melania Mazzucco
- Genere: Arte, Teatro e Spettacolo
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Einaudi
- Anno di pubblicazione: 2023
A Roma, nei pressi di Piazza Navona, nel rione di Sant’Eustachio c’è un luogo particolarmente ambito dai turisti: la Chiesa di San Luigi dei Francesi.
Vagando lungo le sue navate, immersi nel chiaroscuro che ne contraddistingue l’interno, potreste fare una scoperta sorprendente. Mentre la folla si dirige in pellegrinaggio davanti alla cappella Contarelli che custodisce i pregiati dipinti di Michelangelo Merisi, detto Il Caravaggio, voi restate un po’ in disparte e soffermatevi invece sulla cappella dedicata a San Luigi alla quale, di solito, i turisti dedicano appena uno sguardo distratto.
Osservando bene, noterete che accanto alla nota descrittiva è stato tracciato un nome con il pennarello indelebile: Plautilla, così recita la scritta.
È lei, Plautilla Bricci, l’artefice della cappella di San Luigi dei Francesi: nel lontano 1680 ne curò ogni dettaglio, scegliendo i motivi dorati dei pennacchi e i marmi policromi dell’altare e dipinse persino il grande ritratto olio su tela raffigurante re Luigi IX, canonizzato santo nel 1297 da Papa Bonifacio VIII.
Oggi non c’è nessuna targa a commemorare il nome dell’autrice, solo una traccia impressa con il pennarello indelebile. Ci piace pensare che la scritta sia stata opera di qualche lettore che ha voluto rendere omaggio alla “resurrezione letteraria” di Plautilla avvenuta attraverso le pagine di un romanzo, L’architettrice (Einaudi, 2019) di Melania G. Mazzucco.
È stata la letteratura a riscattare il nome di Plautilla Bricci, la prima architettrice della storia, dall’oblio in cui era stato confinato.
Il museo del mondo delle donne è una storia sommersa, dimenticata, offesa da una prospettiva distorta che ha a lungo privilegiato il canone maschile riponendo l’arte femminile nell’ombra. Ora Plautilla ritorna, insieme a una folta schiera di consorelle pittrici e artiste, nel museo letterario creato da Melania Mazzucco tra le pagine di Self-Portrait. Il museo del mondo delle donne (Einaudi, 2022).
Nel suo personale museo, che talvolta assume le sembianze oniriche di una visione mentale, Melania Mazzucco seleziona trentasei opere in cui la donna è soggetto due volte: perché è colei che dipinge il quadro e, al contempo, è il soggetto che ne è ritratto poiché raffigura un’altra donna, oppure sé stessa. Ne risulta una galleria affascinante, suggestiva, di quadri che diventano storie e compongono, tassello dopo tassello, un viaggio nella condizione femminile attraverso l’arte.
Dall’infanzia alla vecchiaia, senza trascurare tutto quanto sta nel mezzo di cui l’autrice analizza le innumerevoli differenze, tenendo conto delle donne sole, delle gravidanze desiderate o mancate, delle madri orfane, dei rapporti di sorellanza.
La successione non è quindi cronologica e non segue alcun criterio storiografico, artistico o geografico, ciò che conta è unicamente l’emozione che l’opera è in grado di suscitare e la storia in essa celata che la penna della scrittrice anima per noi, rendendola viva e pulsante, più vibrante del colore impregnato sulla tela.
Così, pennellata dopo pennellata, si compone un quadro di possibilità infinite come le sfumature dell’esistenza.
L’esposizione letteraria di Melania Mazzucco ha inizio con la pittrice seicentesca Elisabetta Sirani, la prima ad apporre la firma alle proprie opere rivendicando così la maternità delle sue creazioni.
Il quadro che apre il museo è Porzia che si ferisce alla coscia, che mostra l’eroina romana nell’atto di ferirsi per dichiarare al marito Bruto di essere degna di stargli accanto nella lotta politica e nella cospirazione per l’uccisione di Cesare.
È un atto di coraggio, dunque, a inaugurare il percorso espositivo al femminile: la Porzia di Sirani è il primo Self-Portrait, un’autorappresentazione appunto, che assurge al ruolo di manifesto per tutte le donne artiste che rivendicano il proprio diritto di vivere a modo loro praticando una professione, come la pittura, ritenuta a lungo appannaggio maschile.
Dopo la Porzia di Elisabetta Sirani, che ho scelto come manifesto e autorappresentazione di tutte le artiste - donne forti, eroine a loro modo, che rivendicano il diritto di volgere le spalle ai lavori domestici per contribuire alla lotta politica, e/o alla produzione culturale -, entriamo nel museo.
All’interno del museo troviamo infatti donne indipendenti, ribelli e indomabili, donne artiste che sperano di “diventare sé stesse”, come Paula Modersohn-Becker che scrive: “Voglio essere me”.
Al contempo, osservando i dipinti, analizziamo la metamorfosi del corpo che si modifica con il trascorrere degli anni: dall’infanzia alla vecchiaia. Incontriamo donne madri e donne non madri. Ci imbattiamo nel singolare racconto della maternità vista con gli occhi di una suora, Plautilla Nelli, che dipinge una nuova annunciazione in cui è lei a guardare negli occhi l’angelo quasi lanciandogli una sfida. A suo modo Suor Plautilla Nelli accoglie la vita che le è stata data e “la rende grande”, la trasfigura, la trasforma in arte.
Tra le pagine un tema che ritorna spesso è proprio l’idea della “donna creatrice”, perché:
Un’artista è sempre madre, anche solo di sé stessa.
Self-portrait. Il museo del mondo delle donne si compone di una galleria di donne talentuose che spesso trovano la propria realizzazione nell’arte, come Frida Kahlo che trasforma la morte di una parte di sé in pittura.
Un capitolo interessante è quello dedicato alle Madri orfane in cui Melania Mazzucco riporta un’unica opera: Die Mütter (Le madri, Ndr) della pittrice tedesca Käthe Kollwitz che in questo quadro dà voce al dolore delle madri che hanno perso un figlio. Non esiste una parola, nella nostra lingua, per descrivere una simile condizione, così ingiusta, così innaturale. Laddove la parola non arriva, è l’arte a giungere in soccorso: nella sua “opera al nero” (come un romanzo di Yourcenar) Kollwitz raffigura un intreccio di donne, unite nel dolore come una testuggine, per proteggere i loro bambini dalla guerra. I bambini appaiono nell’intreccio di mani e corpi come figure spettrali, fantasmatiche, tra le vesti nere delle donne abbracciate nella condivisione di un dramma inenarrabile.
Questa esposizione al femminile ci parla anche di rinuncia: racconta le storie di pittrici grandiose costrette a cedere il passo al marito, a eclissarsi tra le mura domestiche per rammendare oppure occuparsi dei figli; artiste a cui è stato impedito di brillare in un’epoca in cui la pittura non era considerata la professione adatta a una donna.
A nessuna donna era concesso di restare libera a lungo: chi sceglieva la strada della libertà era consapevole di affrontare un percorso impervio, di esporsi al pubblico ludibrio. Lo sa bene Carol Rama che vide la sua mostra torinese chiudere ancor prima dell’inaugurazione per “oscenità e offesa al comune senso del pudore”. Nella serie Appassionata (1941) Rama aveva raffigurato le stanze di un manicomio femminile filtrate da uno sguardo onirico che le rendeva violente, trasgressive, disturbanti. Per vedere finalmente le proprie opere esposte in una galleria Carol Rama dovrà attendere il 1979.
L’immagine di copertina del libro raffigura The Only Blonde in The World (1963) di Pauline Boty, un dipinto oggi conservato alla Tate Gallery di Londra. La giovane Pauline, caschetto biondo e grandi occhi blu, si trovò a dover combattere il sessismo e la misoginia imperanti nell’Inghilterra degli anni Sessanta. Nel quadro L’unica bionda al mondo Boty, all’epoca appena venticinquenne, ritrasse la diva per eccellenza, Marilyn Monroe: è la raffigurazione del mito contemporaneo, ma anche l’emblema di una bellezza che diventa prigione. Marilyn sembra uscire dal dipinto e camminare direttamente tra noi, come se attraversasse la strada. Quando Pauline dipinge il quadro, Marylin è già morta, a soli trentasei anni: Pauline Boty ancora non può saperlo ma anche lei sarà destinata a restare “giovane per sempre”. Anni dopo rifiuta di curare un tumore per portare avanti la gravidanza: sua figlia Katy vedrà la luce, ma lei si spegnerà per sempre. La sua storia oggi è ricordata anche in un bellissimo libro di Ali Smith, Autunno, di cui i dipinti di Boty fungono da sottotesto: trent’anni dopo la sua morte la pittrice dal caschetto biondo sarebbe stata scoperta come pioniera della pop-art inglese, con un ritardo imperdonabile. Il titolo del quadro, The Only Blond In The World, è volutamente canzonatorio, ironico, sembra lanciare una sfida: non era Marilyn l’unica bionda del mondo, c’era anche lei, Pauline, e una folta schiera di donne che dovevano lottare con le unghie e con i denti per vedere il proprio talento riconosciuto.
Nei quadri esposti nel Museo del mondo delle donne c’è la fatica del lavoro, la consuetudine del matrimonio, la solitudine dell’indipendenza.
Ogni quadro ci pone un interrogativo, formula una precisa domanda, alla quale poi spetta a noi trovare una risposta.
Nel frattempo ecco i capelli che imbiancano, gli occhi che pian piano si spengono e non vedono più, la prospettiva della vecchiaia e la morte che infine appare come una promessa di rinascita.
Ritorna la nostra Plautilla Bricci, l’Architettrice, che nel quadro La nascita di Giovanni Battista raffigura per la prima volta, al centro della scena, una levatrice anziana. Non era consuetudine ritrarre una donna in età avanzata; ma Plautilla, con la sua sensibilità femminile, affida alla vecchia levatrice un ruolo di primo piano, forse vedendo in lei un riflesso di sé stessa che, mentre dipingeva, aveva quasi la sua stessa età della donna ritratta.
Vecchiaia e infanzia si ricongiungono nel finale, come due estremi di un unico cerchio che compone il ciclo della vita. Il Museo del mondo delle donne di Melania Mazzucco si conclude con una scultura dell’artista Giosetta Fioroni, nata a Roma nel 1932: Giosetta con Giosetta a nove anni, un’opera del 2002 che è simbolo di introspezione e cambiamento.
La scultura di Fioroni raffigura una donna che tiene per mano una bambina; ma non sono nonna e nipote, come potrebbe sembrare a una prima occhiata, si tratta di un’autobiografia plastica che raffigura la stessa Giosetta nelle due diverse - e opposte - fasi della vita, infanzia e vecchiaia.
Il vero tema dell’opera, ci spiega Mazzucco, è il “Tempo”. Le due Giosetta si tengono per mano, non si sa chi delle due stringa più forte: sembrano farsi forza a vicenda, l’una nell’affrontare l’abisso del passato, l’altra il futuro vasto e indefinito che la attende. Entrambe sembrano trovarsi dinnanzi a un varco; ma non hanno paura. Ciò che sostiene l’anziana è la visione della sua infanzia che non è perduta, poiché vive ancora in lei e, in realtà, non se n’è mai andata.
C’è qualcosa di profondamente commovente in questo sdoppiamento: tra le mani dell’anziana e della bambina sembra scorrere la corrente irrefrenabile della vita con il suo concentrato di sogni, emozioni, ricordi. Il cerchio che si chiude rappresenta un nuovo inizio, una storia destinata a proseguire ancora, forse un lascito tramandato di generazione in generazione, come la vita di una donna che si ripete sempre identica - dall’infanzia alla vecchiaia - eppure ogni volta diversa.
Ogni pittrice ha lasciato la propria traccia di unicità; è stata perfettamente sé stessa, almeno nello spazio esiguo della tela, consegnandoci il proprio inedito Self-Portrait, l’autoritratto che spesso non raffigurava il suo volto ma un’immagine, un paesaggio, una situazione, un’altra donna in cui l’artista si era, per un attimo, riconosciuta come sfiorando il proprio riflesso in uno specchio.
La storia dell’arte al femminile è una prospettiva rovesciata, una strada impervia, creata a fatica, realizzata “nonostante” la libertà d’espressione a lungo negata.
Self-Portrait. Il museo del mondo delle donne
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