Georges Simenon. L’indagine del vuoto
- Autore: Marco Vichi
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2016
Nel libro “Georges Simenon. L’indagine del vuoto” (Edizioni Clichy, 2016) Marco Vichi, tra i più noti e apprezzati autori italiani, racconta il più grande maestro del noir di tutti i tempi. In queste pagine, corredate da fotografie in bianco e nero, Georges Simenon (Liegi, 1903 - Losanna, 1989), il creatore del commissario Maigret e di centinaia di altri capolavori, è osservato dallo sguardo partecipe di Marco Vichi, il papà del commissario Bordelli. Completano il testo, una biografia e una bibliografia essenziale di Georges Simenon.
L’innamoramento di Vichi per il prolifico autore belga parte da lontano, dai mitici anni Sessanta, precisamente dal 1964, quando il bambino Marco, nato a Firenze nel 1957, si accomodava davanti alla televisione per vedere
“Le inchieste del commissario Maigret (...) sul Programma Nazionale”
con la regia di Mario Landi. Era quella una grande e commovente magia: un rito familiare irrinunciabile, davanti a un caminetto che invece della legna ardeva immagini e che scaldava davvero, “Non ci perdevamo una puntata”. Pochissimi esterni, non molti ambienti, arredi semplici, soltanto poche sequenze, fra le quali quelle delle sigle iniziali, venivano filmate a Parigi in esterno. Ciò che rendeva preziosi quegli sceneggiati televisivi era la recitazione di Gino Cervi e di Andreina Pagnani, che faceva da cornice alle parole di Simenon e a una produzione di alto livello.
“Ricordo che ogni volta, al momento della sigla di coda, mi sentivo triste: avrei voluto che durasse molto di più”.
Come tanti italiani di allora, Vichi aveva conosciuto Simenon attraverso Maigret, senza immaginare che avesse scritto altro fino al giorno in cui lo scrittore toscano prese in mano “L’uomo che vedeva passare i treni” e scoprì un altro Simenon.
Solo nel 1997, nel pieno di una crisi creativa, Vichi si era imbattuto per caso in una delle scatole di cartone piene di libri del padre. All’interno c’erano tutti i romanzi di Maigret nell’edizione Mondadori, comprati da Vichi senior tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Sessanta. La lettura di quei settantasei romanzi, l’immersione totale in quella scrittura così semplice e profonda,
“capace di farmi vivere in altri luoghi e in altre epoche, di farmi conoscere l’anima dei personaggi, quella scrittura velata di ironia e di malinconia, mi aiutò a superare la crisi”.
Per Marco Vichi Georges Simenon non solo è “uno dei miei autori preferiti” ma “un gigante del romanzo”. Inoltre ciò che Simenon ha di stupefacente è che nei suoi innumerevoli romanzi non si ripete mai, ogni storia è nuova, sia per gli scenari, sia per il materiale umano, sia per l’andamento della storia e per l’atmosfera che la permea. In ogni suo libro la “voce” è inconfondibile. Vichi parla di “voce” perché l’autore è convinto che la scrittura di Simenon possieda come un
“timbro vocale, un andamento che nessuno ha mai avuto al di fuori di lui”.
A Simenon bastano poche righe e una manciata di aggettivi per far immergere il lettore nella vicenda che sta per essere raccontata, giacché uno degli autori più letti e tradotti del Novecento è un narratore legato alla terra, alla vita quotidiana, ai personaggi dimenticati, soli nelle loro manie e ossessioni,
“oppressi dalla vita, dai propri sogni, dalle proprie paure, nei quali possiamo leggere noi stessi ed esplorare i nostri lati oscuri, che fino a quel momento abbiamo ignorato o tenuto da parte”.
Immortale Simenon come il suo antieroe Jules Maigret tornato in tv con due capitoli trasmessi dalla britannica Itv lo scorso marzo e presentati giorni fa alla Roma Fiction Fest. Prodotti dal figlio di Simenon, John, sono interpretati da Rowan Atkinson nel ruolo del commissario di polizia francese e da Lucy Cohu nella parte della moglie del poliziotto del Quai des Orfèvres.
“Il commissario Maigret, della Squadra mobile, alzò la testa ed ebbe l’impressione che il brontolio della stufa di ghisa posta al centro dell’ufficio e collegata al soffitto da un grosso tubo nero si stesse affievolendo. Spinse da parte il telegramma, si alzò pesantemente, regolò la valvola e gettò tre palate di carbone nel focolare. Poi, in piedi, con le spalle rivolte al fuoco, caricò la pipa e si allentò il colletto che, per quanto molto basso, gli dava fastidio. Guardò l’orologio, segnava le quattro. La sua giacca era appesa a un gancio piantato dietro la porta” (“Pietr il Lettone”, Adelphi, 1993).
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