Sotto il ferro della luna
- Autore: Thomas Bernhard
- Categoria: Poesia
- Anno di pubblicazione: 2015
Nella traduzione attenta di Samir Thaber, e con testo tedesco a fronte, è uscito da Crocetti il volume di poesie che lo scrittore austriaco Thomas Bernhard (1931-1989) pubblicò nel 1958. Dei cinque libri di versi dati alle stampe da Bernhard in giovane età, questo “Sotto il ferro della luna” è forse il più maturo e il più noto, e lascia trapelare in nuce temi e toni della sua prosa narrativa e teatrale posteriore. Tuttavia non abbiamo di fronte, qui, la scrittura livida e rancorosa, ossessiva e crudele, autoreferenziale e misantropa delle prove maggiori: i nodi e le rigidità caratteriali, ereditati dalla sua sofferta vicenda biografica, si allentano nella descrizione della natura, pur senza mai sciogliersi del tutto. Il paesaggio montano e severo in cui Thomas Bernhard si autoesiliò non è mai consolatorio, né amico: eppure viene avvertito come solidale nella faticosa adesione al puro esistere, alla ordinaria conservazione di sé, nello scorrere imperturbabile del tempo.
“Quest’anno è come l’anno di mille anni fa, / non sappiamo nulla, / non sappiamo nulla del declino, / delle città sprofondate, del vortice in cui sono affogati / cavalli e uomini”, “Si sveglieranno e saranno dimenticati / nella risata che rotola dalle colline, / nel temporale dei lupi // che investe di soffi sulle città fumanti le teste ovine / e le rende polvere”.
Un destino indifferente livella vegetali, animali e persone, e per esso non vale la pena lottare o soffrire, visto che ogni cosa è fatalmente consegnata alla dissoluzione e all’oblio.
Il paesaggio descritto è in prevalenza notturno e invernale, tormentato da neve, pioggia e vento, minacciosamente silenzioso, abitato da presenze spettrali “che danzano sopra i maiali e perseguitano mucche / nel loro sonno irrequieto”. Ma nella simbologia negativa dell’universo bernhardiano ha almeno il pregio di non essere animato e percorso da parole e gesti umani, rimanendo invece puramente spopolato, selvatico:
“Più selvaggio grida / l’uccello / del mio morire, / ascolta, / nel vento si agitano / paure, / infreddolito / torna a me / ciò che avevo perduto”
Se c’è una qualche preghiera, non è mai rivolta a un dio, ma sempre ai morti, ai trapassati, con cui si stabilisce l’unico rapporto possibile, fatto di impotente rassegnazione, di soffocata animosità. Cimiteri, processioni funebri, alberi spettrali, luna e stelle lucide come l’acciaio, scarse case disabitate, uccelli che stridono nel cielo plumbeo: vivere è faticoso, senza alcuna prospettiva di riscatto o salvezza, senza possibilità di un’apertura verso il futuro. Non leggiamo in questi versi l’odio e il disprezzo verso la mentalità claustrofobica e l’ideologia politica austriaca che tracima dai romanzi e dalle opere teatrali successive di Thomas Bernhard: solo disarmata paura, e passiva disperazione:
“ormai nessun arbusto ti proteggerà / da fredde stelle / e da rami macchiati di sangue, / nessun albero e nessun cielo ti consolerà, / nelle corone di inverni in frantumi / cresce la tua morte, / con rigide dita / lontano da erba e da lande selvagge / nei detti della neve or ora caduta”.
Sotto il ferro della luna
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