Storia generale dei pirati
- Autore: Charles Johnson
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Nutrimenti
- Anno di pubblicazione: 2022
Le geografie esotiche, le Indie Occidentali con le loro isole disabitate, gli atolli, le lunghe barbe nere, gli assalti proditori e la crudeltà efferata, ma anche il Brasile, il Madagascar, il Mar delle Antille, - l’immaginario della pirateria che sin da bambini ci ha mappato il territorio mentale, ha un responsabile preciso – o meglio lo avrebbe, se non fosse che il suo nome dice poco al lettore comune e molto probabilmente ne adombra un altro assai più autorevole e prestigioso: quello di Daniel Defoe, forse il vero autore di questa Storia generale dei pirati, ora in libreria per l’editore Nutrimenti, che è la matrice, scritta praticamente in diretta, di qualsiasi racconto sull’argomento.
Poiché però le prove di tale attribuzione non sarebbero definitive e inconfutabili, del libro lasciamo la paternità a quello che fu con tutta probabilità uno pseudonimo, Charles Johnson, dietro il quale forse Defoe si nascose per ragioni di opportunità legate a diverse vicissitudini che non gli avevano risparmiato nemmeno la galera (per debiti). Ce ne parla il traduttore Andrea Comincini, il quale ricorda anche l’altra ipotesi che resta tuttora in piedi, ossia quella del giornalista Nathaniel Mist.
Il libro uscì nel 1724, il successo fu immediato e persino fragoroso visto che seguirono presto altre edizioni. Vi si raccontavano le vicende di 18 pirati dei decenni precedenti, comprese due donne, Mary Read e Anne Bonny (con ulteriori intrecci dovuti alla necessità di nascondere la propria identità che difficilmente veniva accettata nel codice implicito alla vita piratesca), e mai come in questo caso la parola racconto risuona con una potenza evocativa d’altri tempi. Chi ancora oggi pretende che in un libro o in un film “succedano cose”, preferisce parlare di trama, e non è un caso.
Qui, nella cronografia di ritratti singolari, si addensano atmosfere, cieli, navi infuocate ma anche psicologie (beffarde, sbaragliate, ossessive e spesso anche divertenti) che evidenziano da una parte il passo del narratore sagace, padrone della materia, sicuro nella disposizione dei fatti, dall’altra l’articolazione del discorso di uno scrittore capace di un fraseggio ampio, disteso, sintatticamente di grande respiro.
Il capitano Teach detto Barbanera, Edward England, il capitano Avery e gli altri cercano sinistre fortune negli oceani; fosse autentica la preoccupazione politico-morale dell’autore a noi appaiono comunque storie straordinarie, cui contribuiscono gli antagonisti, le ciurme ribalde, i quadri d’insieme, le visioni lussureggianti di mari tempestosi e giungle rigogliose che troveremo poi per esempio in Robert Louis Stevenson, o in Joseph Conrad (ma anche, meno letterariamente mirabili, in Salgari). Sono biografie spesso tragiche, soccombenti alla stessa concezione predatoria della vita che le animava. Per lo più questi spregiudicati esemplari della specie potevano difatti finire impiccati, o uccisi dalle loro stesse ciurme. E non sempre partivano, come si tende a credere, da origini balorde, o storie di carcere e delinquenza. Spesso erano normali marinai che alla sicurezza di un’occupazione ordinaria preferivano avventure speciali e il miraggio di ricchezze mirabolanti; nemmeno mancavano i casi di pirati che prima erano stati corsari.
Nei secoli in cui il Mediterraneo cominciava a perdere parte della sua centralità storica in favore dei traffici in terre (in acque) americane, il problema della pirateria diventava strutturale anche all’economia europea.
Per questo, si diceva, a muovere l’intenzione del libro sembrerebbe stata - leggendo l’introduzione dello stesso, fantasmatico autore, e tenendo conto anche delle pagine dedicate alla legislazione contro la pirateria – la volontà di mettere in guardia i lettori contro un pericolo sottovalutato, affrontato sempre in ritardo e con gran danno dei traffici “onesti” dei mercanti inglesi.
A quelli soprattutto pensa il narratore che ricorda come ai tempi di Mario e Silla succedeva la stessa cosa. I romani, troppo presi dalle lotte intestine, troppo tardi si preoccuparono dei banditi che li depredavano, fino all’intervento decisivo di Pompeo. Non diversamente, nei decenni più vicini all’autore, i pirati nascondevano le loro ricchezze negli atolli caraibici ricchi di pesci, tartarughe e frutti di mare e aspettavano di procurarsene di nuove bevendo liquori forti (rum, per lo più).
Il tempo che si lasciava loro per scorrazzare impunemente e arricchirsi non era peraltro dovuto solo a disattenzione: non mancava infatti la corruzione favorita da controllori compiacenti, intrecci con vari rappresentanti di governi europei, scambi di favori cui con ritardo seguivano processi a volte sommari a volte leggendari. I pirati stessi in molti casi non erano privi di loro peculiari codici etico-politici – spartizioni del bottino (il massimo era la nave stessa che avevano attaccato), elezione in qualche modo democratica dei capi, eccetera.
Il bello, naturalmente, stava nel momento in cui i più feroci o avidi decidevano di rompere i patti e fare di testa loro.
Da quelle effrazioni provenirono i frutti più velenosi di un’epoca definita “età d’oro della pirateria”; difficile trovare qualcosa di più romanzesco.
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