Paolo Monti, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons
“Su pudes stricarm’ in d’na parola/u durmirés” (Se potessi stringermi in una parola/dormirei) scrive Cesare Zavattini (Luzzara, 1902 – Roma, 1989) in una raccolta di poesie degli anni Settanta scritta nel dialetto del suo paese di Luzzara (RE), nella Bassa Reggiana.
Lo sceneggiatore dei film più importanti di De Sica, tra cui I bambini ci guardano (1944), Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1951), tratto dal suo romanzo Totò il buono, Umberto D. (1952), La ciociara (1960), Il giudizio universale (1961), I girasoli (1969) e collaboratore di altri registi del Novecento come Camerini, Blasetti, Visconti, Lattuada, Clément è stato pure scrittore, giornalista, sceneggiatore di fumetti, pittore e molto altro ancora.
Per le sue sceneggiature e i suoi soggetti fu candidato tre volte all’Oscar: nel 1946, 1948 e 1957.
Cesare Zavattini: un intellettuale enciclopedico
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Geniale e proteiforme, Patrizia Pistagnesi sui programmi di Wikiradio lo definisce un “intellettuale enciclopedico”; continuò a lavorare fino all’ultimo istante della sua vita, oramai 87 enne.
Già il critico d’arte Renato Barilli negli anni Settanta scriveva che:
“Zavattini non ha ancora cessato di essere un caso di difficile collocazione (…) Umorista o drammatico? Evasivo o impegnato? Fantasioso o realista? (…) e non parliamo poi dei generi e delle arti tra cui egli sembra essere equamente ripartito”.
Presso l’Archivio Zavattini c’è un testo autografo, rinvenuto dallo scrittore Gualterio De Santi, autore di Ritratto di Zavattini scrittore (Imprimatur, 2014):
"Ero nato poeta di sicuro", "Ho desiderato essere poeta per tutta la vita".
Zavattini già nel 1967 scrisse di poesia pubblicando in versi un ritratto - biografia del pittore Antonio Ligabue (Toni).
"Se dovessi narrare in una riga," così termina la biografia, "la storia di Ligabue, direi che era meraviglioso come noi".
Questo è lo spirito con cui Zavattini scrive il ritratto di Ligabue:
“Ho attraversato la piazza di Luzzara fingendo di essere Antonio Ligabue. Distiamo sei chilometri da Guastalla dove lui si innamorò, otto da Gualtieri dove spirò nel sessantacinque”.
E nel 1975 pubblicò "Otto canzonette sporche". Le poesie, inneggianti a un disperato erotismo, sono dedicate al poeta Raffaele Carrieri (1905-1984) - Premio Viareggio 1953 - per il suo settantesimo compleanno, con la presentazione del poeta Alfonso Gatto (1909-1976), anch’esso Premio Viareggio nel 1966.
Le poesie di Cesare Zavattini
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L’opera Stricarm’ in d’na parola uscì nel 1973 per l’editore Scheiwiller, ripubblicato da Bompiani nel 2006 con una introduzione di Maurizio Cucchi. All’epoca il libro fu dedicato a quelli della Lega e ai ragazzi della scuola di rieducazione di Deliceto.
Pier Paolo Pasolini lo definì un «libro bello in assoluto».
“Queste poesiole le ho scritte dal ’70 a ieri, le cominciai per gli amici luzzaresi, poi diventate tante sono stato tentato di pubblicarle però in formato piccolo onde ridurre la mia responsabilità”.
Così scrive Zavattini nel congedare la raccolta delle cinquanta poesie.
Forse sarebbe meglio tacere, per la ragione che i temi trattati sono quelli dell’erotismo, della guerra, della vita in osteria, della famiglia, della senilità e della morte. Lo riconosco (A l’arcnosi) – scrive Zavattini – dicono che scrivevo meglio una volta/dicono che sono diventato volgare/lo riconosco e finisco con l’affezionarmici.
Ma lo spirito di Zavattini è troppo forte, rivoluzionario, surreale e satirico e, dunque, apre la sua raccolta con i primi tre versi dall’emblematico titolo Mei taser (Meglio tacere).
“Cosa è la vita?” è la domanda esistenziale che ognuno di noi si fa e alla quale non sappiamo rispondere, ma Zavattini con poche parole ci sorprende con l’immagine di due che fanno l’amore. Forse è questa la vita: amarsi in piena libertà in un campo, senza essere disturbati da un guardone di intellettuale.
Véta véta, cus’èla? Mei taser.
An vrés mia disturbà chi du là
chi è dré a gusars’ in més a l’erba.
Vita vita, cos’è? Meglio tacere./Non vorrei disturbare quei due là/che si stanno chiavando in mezzo all’erba.
L’erotismo e il sesso sono in primo piano in queste poesie scritte con un linguaggio diretto da un uomo di settant’anni che rischia di essere giudicato blasfemo, se non patetico. Come nei versi intitolati “Dio, colui che esiste” in quanto ha inventato il sesso femminile che fa miracoli e ridà la voce ai muti.
Diu al ghé/S’à ghé la figa al ghè./Sul lö al pudev invantà/na roba acsé /cla pias a töti a töti/in ogni luogo,/ag pansom anca s’an s’ag pensa mia,/apena ca t’la tocchi a cambiòn facia./Che mument! Long o curt al saiòm gnanca./La fa anc di miracui,/par ciamala/an möt/a ghé turnà la vus./Ah s’a pudés spiegaram ma/l’è dificil/cme parlà dal nasar e dal murir.
Ovvero:
Dio c’è/se c’è la figa c’è/Solo lui poteva inventare una cosa così/che piace a tutti a tutti/in ogni luogo/ci pensiamo anche se non ci pensi/appena tu la tocchi cambi faccia/Che momento, lungo o corto non si sa/ fa anche dei miracoli/ un muto/ per chiamarla/ gli è tornata la voce/ah se potessi spiegarmi ma/è difficile/come parlare del nascere e del morire.
In un’altra poesia Na not, in una notte piena di stelle i giovanotti tirano fuori l’uccello da mostrare ad una donna. È goliardia, è un gioco e una esibizione da maschiacci, ma senza violenza e infatti la donna ride.
Sota la finestra/dna furastéra/ot/.zuvnot/na not/pina da steli/ia tirà föra/al grèl./Ve zò/i g’ adgeva./Lé mezza lugada/in dll’ombra/la rideva.
Sotto la finestra/di una forestiera/otto/giovanotti/una notte/piena di stelle/hanno tirato fuori l’uccello/Vieni giù/dicevano/ Mezza nascosta/nell’ombra/lei rideva.
Il dialetto nella poesia di Cesare Zavattini
Il dialetto aiuta e stempera parolacce e trivialità. Un poeta, se è vero, non è mai sconcio, piuttosto se compone in dialetto è volgare [dal lat. vulgaris, der. di vulgus «volgo»] ed è attento a farsi comprendere dalla gente del volgo (i luzzaresi), perché Zavattini si rivolge alle classi del popolo con la lingua e i dialetti parlati dal popolo.
Il dialetto poi ha un altro valore che è quello del suono delle parole, la forza onomatopeica.
All’inizio della sua senilità Zavattini sente il desiderio di esprimere con il dialetto certe cose tenute dentro in italiano.
Ivvcend a vrés
buta fora in dialét
col co tgnu dentr’in italian.
As pol di tot cm’al dialét.
Ovvero:
Invecchiando vorrei/buttare fuori in dialetto/certe cose tenute dentro in italiano/Può dire tutto il mio dialetto.
Della religiosità di Zavattini, marxista e considerato da molti ateo e comunista, si è scritto e parlato in libri e convegni. Interessante è l’articolo Tracce di religiosità nell’attività artistica zavattiniana dello storico e archivista Giorgio Boccolari.
È un excursus della opera zavattiniana anche nell’ambito della cinematografia cattolica, a partire dalla sceneggiatura del breve – 13 minuti - cortometraggio “Chi è Dio?” del 1945 diretto dal regista Mario Soldati.
Nella raccolta Stricarm’ in d’na parola il suo rapporto con Dio e con la fede è paradossale e scherzoso, anticonformista e dissacratore, come nelle poesie Un Lampo e Forse, ma pure con un sentimento di religiosità che appartiene a quella schiera di credenti/non credenti.
In dal dasdarm’an lamp:/saresia Crést? /D’an po’ c’a gl’o al suspét
Nello svegliarmi un lampo:/sarei Cristo?/Da un po’ il sospetto ce l’avevo.
Forse l’emusiòn po granda dla me veta/l’é stata na not, a gh’era an stofag, an ferum,/cme proma del teremot, /Diu l’è gnu dentr’in d’la me camara impalpabilment /e al m’à det a te sul a te /a t’fag savé ca n’ag sum mia.
Forse l’’emozione più grande della mia vita/è stata una notte, c’era un’afa, un fermo/come prima del terremoto,/Dio entrò nella mia camera impalpabilmente/ e mi disse a te solo a te/faccio sapere che non esisto.
Presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia è conservato l’Archivio Zavattini che chiunque può consultare.
Sul sito della Biblioteca Panizzi c’è scritto che:
Molte delle sue liriche, con numerosi originali, sono conservate nell’archivio.
Si tratta di poesie edite ed inedite dalle quali mancano le prove poetiche degli esordi, i cui originali potrebbero essere stati bruciati dallo stesso Za assieme alla gran parte delle sue carte, soprattutto lettere, probabilmente nel 1937, per il timore di una perquisizione da parte della polizia fascista.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Stringermi in una parola”. Le poesie di Cesare Zavattini
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