Sulla violenza
- Autore: Hannah Arendt
- Genere: Politica ed economia
- Casa editrice: Guanda
Secondo Hannah Arendt, che ci piaccia o no, la violenza nella maggior parte dei casi ottiene risultati: se Gandhi si fosse trovato di fronte a Hitler, alla fine avrebbe dovuto soccombere. Molti hanno preso atto di questa verità, “predicatori della violenza” tra i quali la Arendt pone anche Sartre, al quale non risparmia critiche, soprattutto per frasi del tipo "popoli del terzo mondo unitevi!", che avrebbero dovuto sobillare i paesi poveri a combattere contro i ricchi, e che la filosofa taccia di miopia e retorica. Questi predicatori si sono sempre appoggiati a teorie fondamentalmente ottimistiche, che predicavano una violenza di breve termine in vista di un’ascesa che essi vedevano come inevitabile. Queste ottimistiche teorizzazioni, per quanto costantemente rinnegate dai fatti, continuano ad ottenere largo consenso perché inficiate da un’esagerata fiducia in un progresso particolare, limitato: quello scientifico (che non sempre coincide con il progresso umano in generale). In realtà, se la violenza non raggiunge i suoi scopi nel breve periodo e se continua a protrarsi, alla fine dà luogo a un sistema che è violento in sé; ecco perché non è vero che il potere possa nascere da una violenza temporanea. Il richiamo a Marx e alla dittatura temporanea del proletariato è una costante in quest’opera.
È necessario distinguere il potere dalla violenza: il primo è un fine in sé e ha sempre bisogno di numeri, mentre la violenza, essendo uno strumento, un mezzo, dei numeri può fare a meno; è il classico esempio di un solo uomo con una bomba che può tenere sotto controllo più persone. Il potere non è solo capacità di agire, ma capacità di agire di concerto, in quanto non è una realtà scindibile dal gruppo, di fronte al quale deve sempre giustificarsi. In questo si distingue dalla potenza, che è sempre individuale, e contro la quale il potere può scagliarsi:
"E’ nella natura del gruppo rivolgersi contro l’indipendenza, che è proprietà della potenza individuale".
La violenza trova sempre sostenitori perché è esaltata come vitalità, mentre la quiete è vista come debolezza, rinuncia, e ciò deriva da un pregiudizio organicista secondo cui il potere, come una pianta, o cresce o muore. Alla fine la violenza può essere considerata come un elemento innovatore che attacca un potere. Nella nostra società, infine, l’aumento della burocratizzazione è un ulteriore incentivo alla violenza: non esiste un potere personale col quale prendersela, i partiti politici non rappresentano più il cittadino che ha perso la sua voce, ha perso la facoltà di agire nel suo ambiente e considerando che l’azione è la risposta alla condizione di essere umano, l’uomo è privato della sua caratteristica essenziale.
Per riassumere, più la società di massa cresce, più cresce la violenza; in questo contesto si capiscono anche certi nazionalismi etnici che si rivoltano contro l’accentramento del potere. E il potere, quando si sente minacciato, ha la tendenza a servirsi di strumenti violenti.
Sulla violenza
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Questo è un bellissimo saggio di Hannah Arendt, in cui l’autrice distingue i concetti di potere, potenza e violenza.
A proposito della violenza, la Arendt precisa che: "LA PRATICA DELLA VIOLENZA, COME OGNI AZIONE, CAMBIA IL MONDO, MA IL CAMBIAMENTO PIU’ PROBABILE E’ VERSO UN MONDO PIU’ VIOLENTO". PAG. 88
Il saggio mette in luce l’impossibilità di mantenere il potere attraverso la violenza, come giustamente mette in rilievo la recensione.
La violenza, quindi, secondo la Arendt: "PUO’ DISTRUGGERE IL POTERE, E’ ASSOLUTAMENTE INCAPACE DI CREARLO". (PAG 61).
Dalle due frasi sopra scritte, si evince come, secondo la Arendt, la violenza è inutile, se intende riformare la società.
A mio giudizio, la violenza, oltre che inutile, è anche profondamente immorale e dannosa.
Rosa Aimoni.