Tevere
- Autore: Luciana Capretti
- Genere: Storie vere
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Marsilio
- Anno di pubblicazione: 2014
Un romanzo tratto da una storia vera, altamente drammatica e commovente, quello che ci regala Luciana Capretti che dà un titolo fortemente simbolico anche se molto reale al libro: Tevere.
Siamo a Roma negli anni settanta. In un appartamento borghese vive Clara, una cinquantenne madre di due ragazzi, Virginia e Giovanni, mentre il marito, uno sceneggiatore di successo, è sempre assente. La donna è affetta da una cronica depressione che la confina nella sua stanza, in penombra, dove alterna gocce tranquillanti a sigarette, immemore di tutto ciò che la circonda, malgrado nutra un grande affetto per i due figli e una gelosia morbosa per il marito, che sa distratto da un’altra donna. Clara, coperta da una leggera sottoveste, con un pellicciotto sintetico sulle spalle e improbabili tacchi alti, si avvia in una sera di gennaio per la strada, prima in taxi sotto casa dell’amante del marito, poi all’isola Tiberina, e finalmente raggiunge il fiume. Piove da giorni e
“Il Tevere non ce la faceva più e correva, affannato, premuto dal suo carico di fango, detriti, rami. Correva, e più si avvicinava al mare e più sbavava. E sbatteva, contro le arcate dei ponti, le banchine degli argini…”
La scrittura attenta, precisa, tagliente di Luciana Capretti ci mette subito al centro della drammaticità della storia che sta per raccontarci. Una storia nella quale la scomparsa, forse l’annegamento della protagonista, non sono che il sottotesto di una ricostruzione storica che va dagli anni oscuri del fascismo a Novara, nel lungo inverno di Salò, fino alla liberazione da parte degli alleati, avvenuta nella città piemontese il 26 aprile del ’45.
Man mano che scorrono le pagine del libro, scopriamo insieme al commissario Jozzelli, che è incaricato delle indagini sulla scomparsa di Clara, una storia oscura nella quale la donna e la sua famiglia erano state coinvolte alla fine degli anni quaranta. Non ci sono prove che Clara Faiola in Moroni sia davvero annegata ed ecco che il poliziotto, colpito dallo sguardo triste colto sul viso dell’unica foto della scomparsa, si accanisce nella ricerca di una verità, neppure lui sa perché. Forse, gli suggerisce un’amica psichiatra a cui si è rivolto per capire i meccanismi che avrebbero potuto spingere Clara al suicidio, per restituire la madre ai due ragazzi orfani, essendo stato orfano lui stesso.
Eccoci dunque con la scrittrice in due tempi diversi della storia: il presente, fatto di supposizioni, di ricerche vane, tra ospedali, il manicomio di Santa Maria della Pietà, testimonianze vaghe di labili testimoni, e una ricostruzione del passato in cui la giovane Clara era vissuta con le due sorelle, Mirna e Virginia, vessate da un padre dispotico e violento, fascista, che troverà solo nella Repubblica di Salò la riscossa ai suoi fallimenti di uomo, di marito e di padre. Nella famiglia Faiola avvengono fatti da tragedia greca, mentre la giovinezza di Clara viene completamente distrutta dalla morte della sorella più amata, dall’impazzimento della madre, dalla scelta di arruolarsi come ausiliaria nelle milizie repubblichine e dalle inevitabili conseguenze che le “collaborazioniste” “spie dei tedeschi” subiranno all’indomani della Liberazione.
Grande merito di questo romanzo è quello di aver letto la storia recente in modo non ideologico, cercando di indagare a fondo la malattia di una donna su cui una cultura maschilista, una perdurante ignoranza e una storia troppo grande e violenta avevano agito in modo crudele espropriandone per sempre il corpo e la mente, senza possibilità di risarcimento.
Ho pensato, leggendo molte delle intense pagine del libro, ad una canzone di Francesco De Gregori, “Il cuoco di Salò”, dove si nutre pietà per chi si è impegnato dalla parte sbagliata
“Che qui si fa l’Italia e si muore
dalla parte sbagliata
in una grande giornata si muore
in una bella giornata di sole”
e anche, nella descrizione della città di Novara, ad alcuni brani del libro di Sebastiano Vassalli “Cuore di pietra”, in cui si racconta la ferocia inaudita del nazifascismo contro i partigiani in quella parte del Nord. Ho invece pensato a Gadda in molte parti del libro dedicate a Roma, triste e piovosa, ostile, indifferente, becera, incapace di comprensione e di pietà.
L’affresco di Luciana Capretti è capace di illuminare con grande commozione la storia di una donna distrutta dagli uomini e da una società incapace di aiutare: non il padre, non il marito, non i medici; le uniche figure maschili che sembrano aver a cuore il destino di questa vittima sono il figlio Giovanni, un vecchio tassista romano, un barbone sull’argine del Tevere, un commissario di polizia solitario. Troppo poco per la sua salvezza.
I capitoli del libro hanno come titolo un colore:
- giallo, come l’acqua limacciosa del fiume,
- nero, come la paura che circolava nelle strade di Novara nel 1940,
- bianco, il colore delle mura dell’ospedale dove si pratica senza anestesia l’elettroshock e delle bende per fermare il sangue.
Così proseguendo per tutto lo scorrere della narrazione, in un’ossessiva anafora del giallo, nero, bianco, l’autrice scandisce le fasi di un destino segnato fin dalle prime righe del testo, ma che andrà pian piano riempiendosi di dettagli, particolari, circostanze capaci di rendere il quadro del tutto chiaro ma non per questo meno angoscioso.
Un libro bello, nitido, onesto, dalla scrittura alta e ricercata, ma ugualmente diretta ed efficace, soprattutto nella narrazione di un dolore che non ha confini.
Tevere
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