Textile - Orly Castel
- Autore: Bloom
- Categoria: Narrativa Straniera
- Anno di pubblicazione: 2011
Nata a Tel Aviv (zona nord) nel 1960 da una famiglia di Ebrei egiziani, Orly Castel Bloom nella primissima infanzia ha avuto come lingua materna il francese. La scrittrice può essere considerata una delle voci più espressive della letteratura ebraica venute alla ribalta negli anni ’90, in grado di forti innovazioni linguistiche ed espressive.
Il presente romanzo, Textile, terminato nel 2005 e pubblicato in Italia alcuni mesi fa dalla Casa Editrice Atmosphere Libri con la perspicua traduzione di Raffaella Scardi e Ofra Bannet, riprende il tema già trattato nella prima raccolta di racconti brevi (Non lontano dal centro della città): la coppia, per così dire, deformata.
Qui essa è costituita da due coniugi di mezza età della ricca borghesia telavivina, i Gruber, proprietari di una villa situata in un nuovissimo -è questo il difetto principale di quel luogo!- quartiere residenziale, posto nella parte settentrionale della città, denominato Tel Baruch nord.
Il marito, Irad, è un celebre scienziato, inventore insignito con numerosi attestati (compreso il Premio Israele del settore nel fatidico 2001), titolare di una sessantina di brevetti.
Poco dopo l’attentato alle Torri Gemelle di New York egli è incaricato dal Ministero della Difesa israeliano di progettare e produrre un’uniforme protettiva speciale, leggera, denominata in codice “UNI T, destinata, in un primo tempo, ai soldati di leva e ai riservisti, indi gradualmente a tutti i cittadini per difenderli dagli attacchi terroristici. Dove trovare la “materia prima” per creare tali uniformi? Irad indaga senza sosta e giunge a una precisa conclusione. Egli è un uomo del tutto conscio delle proprie capacità sulle quali ama intrattenere chiunque abbia la (s)ventura di avere a che fare con lui, a cominciare dai familiari e, in primo luogo, dalla moglie, Amanda detta Mandy.
Costei, nata Greenholtz, è titolare di una fabbrica di pigiami denominata “Sogni d’Oro”, situata a Netanya, ereditata da Sua madre, Audrey, che l’aveva costituita verso la metà degli anni ’60 del secolo scorso, poco il suo arrivo in Israele dalla nativa Rhodesia insieme con la figlia di otto anni, la sunnominata Mandy. Particolare rilevante: unica ed esclusiva destinataria della produzione avrebbe sempre dovuto essere la popolazione ultraortodossa, poiché ritenuta, a giudizio insindacabile della fondatrice, il gruppo più stabile in Israele. La coppia Gruber ha due figli. La primogenita, Lirit, ventidue anni, è la tipica giovane viziatella della buona borghesia, la quale può permettersi di gestire la propria vita come crede, visto che i Genitori non hanno certo il tempo di pensare troppo a lei e di consigliarla con autorevolezza. Dopo alcune brevi avventure, Lirit vive da qualche tempo nel Neghev insieme al suo nuovo compagno, Shlomi, che ha circa vent’anni più di lei ed è un castrante ecologista fanatico con la vocazione -stringi stringi- del mantenuto.
Il figlio minore, il ventenne Dael, svolge il servizio di leva nell’Unità scelta Givati, dove ha l’incarico di tiratore scelto, gratificato dall’Autrice con lo sgradevole (e, per la verità, ingiusto) appellativo di “cecchino”. Sì, uno di quei militari impegnati a uccidere con precisione e senza tentennamenti -cercando di risparmiare, se possibile, i civili innocenti- certi bei tipi (adoratori di Allah) che amano organizzare attentati contro i civili israeliani inermi mandandone all’altro mondo quanti più se ne può, con preferenza per donne e bambini. Per deconcentrarsi, nei momenti liberi da un lavoro duro sotto tutti i punti di vista, il giovane legge, in contemporanea, testi di letteratura classica e sogna, terminata la leva, di approdare a Hollywood, nella speranza di diventare fotografo dei divi. L’ansia per la vita di Dael è il collante che tiene unito il tessuto familiare. Per dirla tutta, quel compito così rischioso svolto dal secondogenito ha innescato in Mandy una vera e propria psicosi che si esprime nell’entrare e uscire da cliniche di lusso, nelle quali ella si sottopone a interventi di chirurgia estetica, tanto assurdi, quanto inutili, specie se si tiene conto dell’inesorabile trascorrere del tempo. Ritroviamo in lei una sorta di “sottospecie” di Dolly (la protagonista di Dolly City), la quale, nel presente caso, riserva a se stessa i tormenti tramite i quali, nel precedente romanzo, ella rovinava la vita al Figlio. I numerosi interventi consentono ad Amanda di trascorrere lungo tempo sotto anestesia e, in generale, in uno stato di costante incoscienza o simil intontimento; e dunque di non pensare all’incolumità di Dael. Il viso della donna è spesso bendato, a seguito di questa o quell’operazione, ed ella sul lavoro davvero non saprebbe come cavarsela se non intervenisse a darle indispensabile assistenza Carmela Levi, la fedelissima segretaria. E Irad? Dopo aver cercato e sfrugugliato sul web alla ricerca di qualcuno con cui condividere le ricerche, poiché, sfortuna nera, un brutto giorno gli erano morti in modo simultaneo ben quattromila esemplari dei ragni che tessevano la tela dalla quale si sarebbe ricavato il tessuto per le uniformi protettive, egli trova la propria anima gemella scientifica in Bahat Mc Phee, un’israeliana stabilitasi da qualche tempo negli USA. Su pressante invito di lei vola negli States per proseguire insieme lo studio.
Poche ore dopo la partenza del marito Mandy si sottopone all’ennesimo intervento; l’ottavo a essere esatti. Per lei arriva da Dresda un chirurgo noto in tutto il mondo per le operazioni condotte nel campo del rimodellamento dei fianchi e nel trapianto delle scapole. Quest’ultima operazione pare assai di moda
“fra le donne facoltose a cui gli anni avevano smussato la punta delle scapole e lasciato una schiena piatta e noiosa”.
Davvero una schiena che Mandy non riesce più a sopportare…. Lo specialista è, a sua volta, un…ex israeliano che ha fatto fortuna all’estero, per l’esattezza in Germania, ma che non disdegna di ritornare ogni tanto a operare nel Paese d’origine speculando con cinismo sull’ansia di eterna giovinezza delle ricche signore in post menopausa.
Mandy dunque va “sotto i ferri”. Ma, ahimé, mal gliene incoglie, poiché, appena terminato l’intervento, è aggredita da una terribile infezione che, in modo inesorabile, la porta in breve alla morte nonostante le pronte cure prestatele dal personale medico in loco.
La morte di Amanda sembra mandare in pezzi la compagine familiare. Certo, Lirit pare, essersi ripresa senza drammi, anzi approfitta della situazione per godersi l’inattesa libertà acquistando abiti nelle boutiques più attraenti della città. E, sotto tale punto di vista, si dà da fare con un certo impegno, tanto più che il noioso Shlomi, il quale affermava, ad ogni pié sospinto, di non sopportare lussi e mollezze, le dichiara di volersi prendere una pausa di riflessione circa il loro rapporto. Per soprammercato la ragazza favoleggia scelte sciagurate a proposito dell’azienda materna, della quale le importa ben poco; come, ad esempio, il licenziamento dell’incolpevole, quanto esperta, Carmela Levi. Dal suo canto Dael, presa coscienza di quanto è accaduto, si ritrova ad invidiare esseri inanimati, quali i tubi di metallo tanto per dirne una, che non hanno alcun tipo di problema.
Quanto a Irad, raggiunto al telefono dalla figlia, sa solo sfoderare, alla notizia del decesso della consorte, una perfetta inerzia catatonica, tanto da non voler più ritornare a casa. L’uomo s’installa presso Bahat, donna intelligente e piena di risorse, ma in stato di perenne squilibrio esistenziale e incapace di realizzare le proprie aspirazioni.
Con spirito tagliente e caustico, condito da un delizioso umorismo nero -insuperabili le pagine che descrivono gli ultimi istanti di vita della protagonista - Orly Castel Bloom ci mostra un tessuto umano lacerato dalla mancanza di comunicazione tra i diversi attori sulla scena, i loro rapporti superficiali, alienati ed alienanti. Decostruttivista, surreale, postmoderna, kafkiana…così l’Autrice è stata descritta. C’è chi, tra i critici, ha letto questo romanzo come la raffigurazione di una società, quella israeliana, del tutto priva di punti fermi, dato il perenne stato di guerra nel quale il Paese versa da decenni.
Ferme restando le scelte difficili cui Israele si trova spesso a far fronte, gli errori, i vuoti, le contraddizioni della sua politica, uniti al boicottaggio del quale esso è deliziato ad opera dei governi occidentali, mi pare che il quadro rappresentato nel romanzo sia applicabile non tanto a Israele in sé -ricco di risorse positive-, quanto a qualsivoglia contesto umano i cui protagonisti permangono in un eterno, insano stato adolescenziale.
Tuttavia è in una visione concreta e positiva che, secondo la mia sensibilità, va letto il romanzo, paradossale solo in apparenza.
Saranno l’individuazione, da parte di Irad, della causa all’origine del suo stato depressivo, a lungo rimossa e, in Irit, rifiorita dopo la scomparsa del deleterio Shlomi, il farsi strada di nuove idee per la conduzione dell’azienda di famiglia, a ricucire il tessuto umano lacerato dalla tragica ed assurda morte di Mandy. Mentre oltre Oceano anche Bahat ritrova alla fine il filo che aveva perduto.
Quando il più buio pessimismo e il totale non sense parevano essere il motivo conduttore della vicenda, ecco la schiarita finale: prendere in mano la propria vita e mettersi in cammino assumendo piene responsabilità.
E’ ora di chiudere con un’esistenza all’insegna dello stand bye.
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