Rivedendolo dopo il recente restauro, a quarant’anni di distanza dal primo ciak, il Todo modo di Elio Petri è un film sbalorditivo, non essendo una trasposizione cinematografica, bensì, come enunciato nei titoli di testa, un’opera liberamente ispirata al romanzo di Sciascia, una rilettura affascinante e infedele.
Il rapporto tra Sciascia e il cinema è stato spesso controverso: da un lato i contenuti politici e civili dei suoi libri hanno rappresentato un fattore di attrazione irresistibile per registi e produttori soprattutto nella lunga stagione del cinema dell’impegno. Pochi altri autori, crediamo, più di Sciascia hanno potuto sistematicamente rivedere sul grande schermo le vicende e i personaggi dei loro libri... Tuttavia spesso l’agonismo delle idee che nelle pagine dello scrittore trascendono la realtà contingente in un orizzonte metastorico hanno costretto i cineasti a forzare la mano al grande autore siciliano, a stravolgerlo talvolta. È quanto fa anche Petri in questo film (uscito nelle sale nel 1976 e di recente restaurato) visionario e iconoclasta, modulando, sulla nota dominante di una danza macabra, Volontà di potenza e Caduta degli dei; Velazquez e la metafisica di De Chirico. Ne consegue che il film risulta essere un’opera differente, del tutto affrancata, titolo a parte, dal libro, giacché il romanzo è certo una metafora sul Potere, ma è soprattutto un racconto filosofico sulla dimensione sacrale del Potere in sé: una sacralità destinata nell’epoca attuale a laicizzarsi, evaporando a vuoto simulacro.
Nel romanzo l’idea del Potere, mediante l’agone dialettico tra don Gaetano e il Pittore, suo simile e antagonista, raggiunge un livello assoluto di rarefazione al punto che gli omicidi perpetrati tra le mura di Zafer sembrano l’effetto di quella dialettica sviluppata dai due grandi antagonisti a un limite estremo di tensione, fino a sconfinare nell’azione più estrema: il delitto. Un effetto ottenuto mediante un altro Potere, quello simbolico, trasfigurante, della Parola. Tutto questo nel film non poteva essere riprodotto né rappresentato pedissequamente.
Ecco dunque che Petri, comportandosi come un traduttore infedele ma congeniale, ha realizzato una forzatura parodica, un parossismo stilistico, con rovesciamenti e continui stravolgimenti:
- eliminando dalla trama il personaggio del Pittore io-narrante,
- riducendo di conseguenza l’ambivalenza (così patente nel romanzo) di Don Gaetano, che è il Diavolo, alle dimensioni di un demone meschino, un faccendiere appena più abile e astuto degli altri;
- sovraesponendo le figure del Presidente (protagonista del film mentre nel romanzo è un comprimario) e dei maggiorenti del potere politico ed economico fino a smascherarne l’atrofia morale.
Petri ha insomma secolarizzato la morte del Sacro dietro l’evidenza storica di un’altra morte: quella della Tradizione e dei valori e tabù ad essa congiunti, raffigurandone il conseguente vuoto morale con le forme dell’ambiguità e del grottesco applicate al linguaggio oscuro (emblematizzato dall’eloquio elusivo ed allusivo del Presidente) di un sistema di Potere, inadeguato e indisponibile ad affrontare i contrasti e le trasformazioni profonde di un’epoca controversa quali sono stati gli anni Settanta. In questo preciso contesto, la Parola desacralizzata, perdendo il suo peso simbolico, riducendosi ad un gergo caotico e scempio che mescola metafore culinarie e liturgiche in un calderone amorfo di metafore e concettismi dove tutto fa brodo (e il compromesso viene chiamato "conciliazione"), diviene lo specchio dell’opacità morale e di idee di una classe dirigente fatalmente destinata, nella conservazione ottusa e autoreferenziale del comando ("comandare è meglio che fottere" dice infatti uno di questi politici), alla propria inevitabile decimazione. La vaniloquenza grottesca della politica, del suo linguaggio disincarnato nelle sue declinazioni verbali e soprattutto gestuali; le ridondanze della forma e la latitanza delle idee restituiscono l’immagine del Potere desacralizzato nella sua essenza di vuoto, di assenza agita e parlata dal suo stesso autistico linguaggio. Sembrerebbe questo il messaggio a futura memoria di Petri contenuto nella sua visione eretica e infedele e in particolare nell’orgia di cadaveri informi della sequenza finale. Per queste ragioni il film è da ritenersi, con una modalità stilistica diversa eppure sorprendentemente affine al romanzo, un campione esemplare e raffinato di satira morale e una profezia disperante su cui varrebbe la pena, oggi più che mai, di meditare.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Todo modo: dal romanzo di Sciascia al film di Elio Petri
Complimenti per la bella e ragionata recensione su uno dei capolavori del cinema italiano.
grazie a lei corrado per i complimenrti e l’attenzione. E’ raro.,.......