Tommaso e il fotografo cieco
- Autore: Gesualdo Bufalino
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Bompiani
Parla di sé, da spettatore-attore e in modo forbito, il protagonista del libro di Gesualdo Bufalino, intitolato “Tommaso e il fotografo cieco” (Milano, Bompiani, 1996). Di monologo in monologo dall’andamento diaristico (è un memoriale infatti che scrive per aprire il forziere del suo segreto interiore!), apprendiamo che egli abita in un bugigattolo seminterrato di un condominio con funzioni di tutto fare.
E’ Roma la città di riferimento, invasa dalla speculazione edilizia e da intrattenimenti indecenti a luci rosse, organizzati da loschi intermediari a favore di politici, di finanzieri, di gente dello spettacolo, di principi del Trastevere nero. Complessa, dunque, la struttura compositiva dell’opera. Sul piano conoscitivo, ad incastro, racchiude plurimi percorsi narrativi; sul piano linguistico, testo iperletterario potremmo dirlo, perché ricchissimo di riferimenti colti sia manifesti che nascosti.
Quanto alla trama vale la pena di accennare ad alcuni passaggi significativi, a partire dall’identikit del protagonista. Se accastella due o tre vocabolari e vi si posa, può appena godersi da una finestra, ad altezza del marciapiede, il transito della gente, vista così soltanto dal basso. Verrebbe l’idea della caverna platonica in cui si vedono ombre e soltanto ombre. Una sorta di prigione, dunque, la sua, ma lontana, in compenso, dalle “sorprese inesauste della vita”. Un povero Giobbe, si definisce e dice di chiamarsi Tommaso Mulè, di quarantanove anni, ex giornalista e aspirante scrittore. Il dialogo tra lui e Tiresia (Bartolomeo il vero nome), il fotografo cieco che vede per interposta persona, apre il narrato a una vicenda quanto mai singolare, i cui aspetti più salienti sono annotati in determinati giorni dei mesi d’agosto e di novembre. Tutto, nel corso dei fatti, acquista la parvenza del giallo-cruciverba. Ironia e satira, malinconia campeggiano nel linguaggio psico-filosofico e certamente illuminato dal senso del mistero. Il Mulè, presentando i suoi passatempi, si dice inventore di palindromi (“questo stesso libro ne è uno”); in seguito, il lettore è informato del rapporto di lui con i condomini. Di ciascuno di essi conosce le abitudini eccentriche, colte dal suo abile occhio, analiticamente analizzate e che fanno toccare con mano le tortuosità della natura umana. Li presenta uno per uno a mano a mano e su Lo Surdo costruisce un racconto “d’atmosfera e sociale”, ma con un finale che sarebbe piaciuto a Pirandello. Di estrema attualità, poi, le rivelazioni che il fotografo cieco gli fa una sera mentre vanno a cinema insieme. Subito dopo tragicamente accade la fine di costui in un incidente stradale. Appositamente voluto o dovuto alla casualità dello scontro?
Tommaso formula ipotesi sulla base dei dati osservati. Sicché, il diario d’una separatezza si ribalta nel suo contrario: egli è adesso abitante nel “succulento cuore d’un Avvenimento”, di cui è stato testimone e per il quale gli pendono addosso minacce. Sicché, si improvvisa detective in cerca di materiale compromettente. Quale? A favore di chi? Che piega prende la storia? I
l gusto della nota di costume si accentua; l’affresco si mostra senza veli; l’azione si fa più presente e tra le pagine corre un’alta tensione che le rende sorprendentemente incalzanti. La scoperta suggestiva resta quella dello smascheramento, affidata al “filo fragile che divide l’invenzione e la realtà”. Induce, poi, a riflettere la conclusione architettata sul fenomeno del “già vissuto” che gli studiosi chiamano “Dejavu”.
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