Tra parola e mondo
- Autore: Angelo Andreotti
- Categoria: Poesia
- Anno di pubblicazione: 2021
Mi giunge l’ultima bella silloge di Angelo Andreotti, Tra parola e mondo (Manni editore, 2021, pp. 128), studioso ferrarese (dirige le Biblioteche e gli Archivi, collabora con la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari), che con grazia sa smettere gli abiti dell’intellettuale e indossare quelli più aerei, in apparenza fragili e molto rischiosi, del poeta. Dico con grazia non soltanto per la bellezza ricercata dei suoi versi, musicali e pensosi, ma per il dono compiuto verso chi si pone in ascolto e riceve, per risonanza, continue suggestioni visive, emozioni e pensieri che arricchiscono, rompono la solitudine. Questa si disintegra e mostra il suo volto ingannevole. Andreotti respira la solitudine dell’io, la nostra comune condizione umana (Quasimodo), pure condivisa con la natura, con gli alberi legati alla terra e desiderosi di cielo quanto noi, ma è capace di ampie aperture comunicative attraverso il paesaggio.
E il paesaggio vivo, insieme al tempo, è uno dei due protagonisti del libro. Paesaggio incarnato, sentito come parte di sé, scandito nelle stagioni nelle quali il poeta legge le sue, e nostre, domande esistenziali, il bisogno di infinito, di rompere i confini. Non si tratta di antropomorfizzare gli elementi, mare, albe e tramonti, gli altri regni, animali e mondo silvestre, sarebbe un parlare figurato; piuttosto, è la consapevolezza dell’unità primordiale (participation mystique) che sottende il visibile frammentato; è veramente uno stato di grazia, esperito in momenti illuminanti.
Dicevo del rischio che ogni poeta corre nel dire, il rischio della verità, di denudarsi anche quando l’io narrante, e contemplante, non è in primo piano e tutto sembra visto in modo oggettivo, impersonale. Ma appunto in ciò sta il miracolo della poesia, in special modo in quella di Andreotti: rompere le categorie e la distanza tra oggettivo e soggettivo, tra realtà e "io". Ne dà testimonianza "in primis" il titolo della raccolta, il verso è tratto da Kathleen Jamie, che scrive:
"E lasciamo che si apra uno spazio / tra parola e mondo / pizzicato dal vento, tremante.”
La poesia crea uno spazio comune, una forma di ecumene, dove mondo e parola possono coabitare, non sentirsi estranei l’un l’altro. Tra molte altre, ecco l’immagine malinconicamente dolce del vecchio che avanza accompagnato da un uccello:
"Anche il merlo si ferma a guardare / il passo e un altro passo dell’anziano. / Cauta pazienza tra il muro e il bastone / a girar dietro casa, dove l’orto / matura un tempo diverso, sincero. / Quasi il merlo lo accompagna / a piccoli e muti rimbalzi, / quasi lo sente.”
La nebbia molto spesso simbolizza il velo e il mistero sul senso dei nostri giorni, come accade nel film Amarcord di Fedetico Fellini.
“La nebbia fluttua l’orizzonte. Io / – come quell’albero che sta in disparte – / cerco il cielo per prendere il volo.”
La prima sezione in modo particolare contiene un lamento relativo al fluire e svanire, all’impermanenza, in scorci brevi e veloci di momenti, rimembranze in cui i genitori scomparsi sanciscono l’impossibilità di trattenere la vita. È uno stato reale soltanto se ci aggrappiamo al tempo scandito dall’orologio.
La natura parla con il suo silenzio, il dito del poeta è posto sulle labbra come monito, perché tacere spesso è voce più eloquente della parola. L’immagine è ripresa da Jan Skácel; ma non possiamo dimenticare il mito, il divino bambino Arpocrate, il piccolo Horus tra le braccia di Iside che compie lo stesso gesto iniziatico. Il mistero può essere intuito, mai detto. Anche la donna amata dal poeta tace, vediamo frusciare la sua gonna, vediamo le mani silenziose che cercano il corpo e tutto acquista verità. La parola dice anche il silenzio, diventa mondo. La salvezza finale sta nel verso dunque, il poeta è profeta, non come anticipatore di eventi futuri, bensì come testimone di uno stato di coscienza. Ma anche il paesaggio assolve una funzione salvifica, come sul delta del Po:
"Lo sbatter d’ali nell’acqua e nell’aria / di un germano che fugge il mio passo, / il suo starnazzare, quell’impeto / avverso all’inverno vallivo, / a quel silenzio remoto, schiarente, / in cui le tamerici ancora tramano / l’ombra rosata del loro fiorire… / mi s-mente, mi s-corpa.”
Scorporarsi, smaterializzarsi, uscire da una prigione. Ne siamo capaci? Come nella visione dei girasoli di Montale. Lo stesso aveva compreso Rilke, enucleando temi simili nel suo saggio Del paesaggio (Adelphi).
"Ciò che viene da fuori" (l’espressione è presa da Zanzotto) è un’altra sezione dell’opera, a dire che siamo un "continuum" tra dentro e fuori di noi.
Il libro è diviso in cinque parti, legate tra loro da un filo sentimentale. Si va dalla tristezza nata da Kronos, il distruttore e divoratore delle forme, fino alla forza incoercibile ricorrente, dunque senza tempo, della margherita:
"E quella margherita? Un ricordo / bianco e giallo di primavera ancora, / con i petali a chignon / in cima a uno stelo ostinato.”
Passando attraverso la visione della morte fisica, la fossa che ci attende, ma per finire, nell’ultimo testo, in un glorioso immergersi felice nei sensi e nella pienezza dell’attimo, una forma di eternità:
“Guarda e attendi.[…] / E i suoni ascoltali, così distinti / come a segnare il passo al tuo sentire. / I colori poi... talmente indaffarati / da riempire tutto ciò che trovano. / Ma i profumi! I profumi / si aprono e chiudono a fisarmonica / ed è un gioioso vibrare dell’aria. / Quando tutto sarà finito / ritroviamoci quaggiù.”
Il verso finale, conclusivo, è una speranza di rigenerazione. Di reincarnazione? Torneremo qui? Il messaggio di Franco Battiato, che ci ha appena lasciato, va pure in questa medesima direzione, nella bella canzone mistica Torneremo ancora.
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