Il concetto di tradizione costituisce un elemento fondamentale del pensiero del Carlismo, il movimento politico e dottrinale cattolico e ispanico i cui appartenenti si definiscono appunto tradizionalisti. Sin dalla prima guerra carlista, combattuta in Spagna tra il 1833 e il 1840, i sostenitori di Don Carlos non hanno mai smesso di meditare sulla tradizione, per definirla e spiegarne la filosofia. Questo modesto articolo (lungi dall’essere infallibile o esaustivo) cercherà di chiarire l’equilibrio e l’inscindibilità di due tradizioni, quella umana e quella divina, nel pensiero tradizionalista.
Il testo prende le mosse soprattutto dall’opera dell’accademico Francisco Elías de Tejada y Spínola (1917-1978), considerato il maggior pensatore carlista della seconda metà del Novecento, che ha scritto pagine essenziali sul significato con cui deve essere intesa la parola tradizione.
La tradizione umana
La tradizione umana è l’eredità storica di un popolo, e nasce da un comportamento proprio dell’uomo: quello di consegnare il sapere ai posteri, un sapere tramandato che è a sua volta la conoscenza degli avi migliorata e attualizzata. Ogni tradizione nasce da un’invenzione efficace, che si trasforma in consuetudine, costume, usanza: siamo nani sulle spalle di giganti, diceva Bernardo di Chartres. E la tradizione non è archeologismo sterile e conservazione acritica, chiariva de Tejada, bensì selezione e dinamismo: tramite questo meccanismo naturale e spontaneo è sempre sopravvissuto il patrimonio culturale dell’umanità. Il momento della tutela, per i carlisti, si connette all’accrescimento, alla creatività e al rinnovamento.
La tradizione non è quindi l’intero passato preso in blocco, ma ciò che offre vigore ed esempio per il presente, un ordine progressivamente perfezionato con continue fasi di accumulazione e processi di depurazione.
La diversità delle tradizioni umane è specchio della molteplicità dei popoli:
“Le nazioni disperse per le isole nei loro territori, ciascuno secondo la propria lingua e secondo le loro famiglie.” (Genesi 10, 5)
La Bibbia spiega che gli uomini furono divisi dal peccato, ma Dio salva l’umanità passando attraverso tutte le sue parti, così la diversità tra gli uomini è diventata bellezza e dono del Signore, che è l’unico che può riunire l’umanità. Allontanandosi da Dio gli uomini restano soli e, concordi solo nella malvagità anziché nell’amore, vorrebbero unirsi emulando Babele.
La tradizione divina
Alla tradizione umana dei popoli cattolici, invece, si lega sempre la santa tradizione, divina: ossia la trasmissione viva, compiuta dallo Spirito Santo, distinta dalle Sacre Scritture, ma da esse inscindibile, con esse comunicante e congiunta, poiché entrambe provengono dalla stessa sorgente. Essa è tutto ciò che la Chiesa crede e trasmette a tutte le generazioni: la comunicazione che Dio ha fatto di sé mediante il suo Verbo nello Spirito Santo è e sarà sempre presente e operativa nella Chiesa.
La santa tradizione, insegna Gesù, è sempre superiore alla tradizione umana: errano coloro che trascurano il comandamento di Dio osservando la “tradizione degli uomini” (Marco 7,8), non si può annullare la parola del Signore con la “tradizione degli antichi” (Marco 7,3) tramandata tra gli uomini. Cristo rivelò che il popolo ebraico, depositario della legge scritta, l’aveva sfigurata con interpretazioni che ne avevano alterato la purezza, il figlio di Dio è venuto sulla terra per renderle il suo primitivo splendore, purgandola dalle alterazioni e dissipando le tenebre create dalla falsa scienza e da tradizioni fallaci. Il Messia ha spiegato la sublimità della legge e come farne applicazione nelle circostanze disparate della vita, non lasciando più scuse alla malizia di coloro che ne violano i precetti.
Il cristiano combatte contro l’inclinazione al male, per correggersi e maturare, così può e deve correggersi e migliorarsi la tradizione umana (usi, norme, forme di vita) nel timore di Dio e seguendo le parole di Gesù.
La tradizione nel Carlismo
Nella battaglia di Oriamendi, combattuta tra il 15 e il 16 marzo del 1837, i carlisti sbaragliarono i liberali e la legione inglese, e pare che in quell’occasione, nell’accampamento nemico, abbiano trovato uno spartito senza parole, probabilmente destinato a diventare un canto di guerra dei reparti britannici o isabellini. I tradizionalisti lo usarono invece come loro inno, componendone il testo, che porta il titolo della vittoria: Marcha de Oriamendi. I suoi versi sono leggendari:
“Lucharemos todos juntos/
Todos juntos en unión/
Defendiendo la bandera/
De la Santa Tradición!”
La bandiera del Carlismo è quindi quella della santa tradizione: la difesa della Religione, non la salvaguardia indistinta di semplici usanze umane.
Il foralismo carlista (costituito dai valori, dagli affetti e dalle autonomie regionali e municipali: i fueros) non è settarismo o, banalmente, “ideologia della piccola Patria”, ma l’espressione dell’amore per il prossimo di cui ha parlato Tommaso d’Aquino: la Patria è estensione dei legami familiari, è il vincolo che connette agli antenati, ha una consistenza oggettiva ed è una realtà naturale. Come è naturale essere figli, avere una famiglia e essere genitori, è naturale avere una Patria e una tradizione cittadina, regionale o più ampia ancora, ma ciò deve essere rivolto al bene. La Religione per i seguaci di Don Carlos vale più di ogni abitudine, di ogni particolarità linguistica, di ogni tecnica agricola, di ogni costumanza e di ogni fatto umano, perché dà senso a tutto ciò.
Come chi scrive ha cercato di chiarire nel suo articolo Cos’è l’etnonazionalismo? Una proposta di analisi osservando il caso spagnolo, il tradizionalismo rifiuta sia il grande nazionalismo che quelli più piccoli, che tutto giustificano in nome “dell’appartenenza” (elevata a paradigma assoluto). Il Carlismo non è “tribalismo”: è incompatibile con il localismo qualora esso diventi una forma di relativismo naturalistico o storicistico secondo il quale il particolarismo sarebbe l’unico canone di ogni decisione, sottratto da qualsiasi verifica.
Come afferma lo studioso tradizionalista Giovanni Turco:
“Le identità e (rispettivamente) le diversità non stanno tutte (assiologicamente) sullo stesso piano. Né l’unità è un bene per sé, né la diversità è un bene per sé. Ogni unità (come ogni diversità) è un valore, se ha il bene come contenuto e come fine. Altrimenti non può che essere un disvalore. Allo stesso modo, neppure le determinazioni geografiche costituiscono, in se medesime, il fondamento del giudizio di valore (di una consuetudine o di una istituzione). Nord e Sud sono categorie della geografia, non della politica, men che meno della morale.” (G. Turco, Localismo e globalismo, in “L’Alfiere”, Dicembre 2012, anno XXIV, n.° 2, p. 35)
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Tradizione umana e tradizione divina nel Carlismo
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