Prima di giudicare Michela Murgia, leggetela. Credo che la Murgia scrittrice sia stata ingiustamente eclissata dalla Murgia personaggio pubblico e social. Ancora oggi, dopo la sua prematura scomparsa, viene presentata prima come attivista, femminista e intellettuale, che come scrittrice. Di lei si ricordano i video, i post, le prese di posizione audaci, i dibattiti politici, l’immagine patinata replicata sulle copertine dei giornali; le opere ormai fanno solo da contorno a una narrazione mediatica già di per sé articolata. Eppure il suo ultimo libro, Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi, ci ricorda la sua essenza, dimostrandoci che lei è stata, prima di tutto, una scrittrice dotata di una voce propria e inconfondibile e di una capacità immaginativa non usuale.
Attorno a questo libriccino Tre ciotole, pubblicato da Mondadori nel mese di maggio, si sono addensate molte aspettative, perché l’uscita in libreria ha coinciso con l’annuncio pubblico della malattia terminale.
“Sarà il mio ultimo libro”, aveva proclamato in maniera solenne Michela Murgia dando subito a quest’opera il sapore greve di un lascito testamentario.
I detrattori di Murgia non avevano esitato a definire l’intervista, rilasciata in concomitanza con la pubblicazione, come un’oculata strategia di marketing commerciale. Difficile quindi scindere quest’ultima opera dal dibattito che ha inevitabilmente scatenato: dobbiamo considerarla meritevole perché mossi dal pietismo per la scomparsa prematura dell’autrice? È un’opera degna di nota in quanto canto del cigno di un’artista?
Tre ciotole di Michela Murgia: un libro di vita
Link affiliato
La verità è che Tre ciotole è l’ultimo libro di Michela Murgia, ma potrebbe non esserlo. Non è un’opera d’addio né un libro- testamento, anche se il dodicesimo racconto, posto significativamente in chiusura, narra una storia da una prospettiva post-mortem come se l’autrice giocasse a immaginare il mondo dopo la sua dipartita attraverso gli occhi di una persona a lei cara.
Tre ciotole è soprattutto un esercizio di immaginazione, mirabile e audace, che ci consegna i molteplici e vasti universi che abitano la mente di una scrittrice. Michela Murgia poteva parlare della morte, oppure scrivere un saggio spirituale o, ancora, un pamphlet politico – ne aveva del resto le capacità e gli strumenti – invece sceglie di regalarci dei racconti che si intrecciano tra loro in un romanzo aperto, componendo una sorta di divertissement. Con lo stile arguto e scanzonato di Aldo Palazzeschi sembra dire: “E lasciatemi divertire!”, deludendo quanti in questo libro si aspettavano di trovare una riflessione sul fine vita, oppure un toccante memoir scritto in prima persona.
In queste pagine Michela Murgia ha inserito un messaggio che va oltre il confine sottile tra la vita e la morte: ci ha consegnato il suo singolare punto di vista sul mondo, uno spazio di osservazione, sminuzzandosi e frammentandosi in ciascuno dei suoi personaggi che spesso compiono azioni assurde, o bizzarre, o disturbanti. Scorre sottotraccia anche il punto di vista politico, perché la scrittura di Murgia è politica, così come politica è stata la sua esistenza. In alcuni racconti questo punto di vista si avverte meglio che in altri, come Utero in affido o Finché morte, in cui tratta argomenti capitali a lei molto cari, la maternità non biologica e l’eutanasia, che erano già presenti nel suo libro-capolavoro, Accabadora (Einaudi, 2009), vincitore del Premio Campiello 2010. Murgia non perde occasione per ribadire il concetto di libertà e lo fa attraverso parole che ci restituiscono intatta la sua voce: forte, sferzante, polemica e ironica, una voce capace di farti riflettere sempre, anche quando non sei d’accordo con quello che dice. In questa capacità innata di mescolare leggerezza e profondità risiede anche la bravura della Murgia scrittrice, che riesce a far sorridere e pensare e commuovere nell’arco di un solo paragrafo.
Leggendo questi dodici racconti si percepisce il talento di un’autrice che, come soltanto i grandi sanno fare, riusciva a trasferire la propria anima nelle parole, a trasfigurarsi oltre la realtà concreta, materiale. Ed è la ragione per cui Michela Murgia continua a vivere nei libri che ha scritto: ciascuna parola sembra pronunciata, scandita, urlata dalla sua voce viva che scardina il nostro punto di vista e impone il suo, invitandoci a guardare le cose da un’altra prospettiva. Questo rovesciamento è il vero punto di forza delle sue storie.
Spesso la visione che fuoriesce dalle pagine è disturbante, oscura, a tratti inquietante: i racconti si chiudono nel momento fatidico, proprio quando sembrano sul punto di iniziare, lasciano così un margine di apertura verso l’ignoto. Troviamo una donna che soffre di una nausea perenne derivata da una pena d’amore; un’altra che si innamora di un cantante riprodotto in cartonato; un’altra ancora che afferma di odiare i bambini ma presta il suo utero per una gravidanza e una che seppellisce un topo martoriato dalle percosse di un branco di ragazzi esibizionisti.
Non sono personaggi consolatori né rasserenanti quelli descritti in Tre ciotole; tutti, nessuno escluso, attraversano un momento di crisi e ci spingono a indagare la zona d’ombra dell’umanità, quella dove nessuno – da qualunque prospettiva lo si guardi – appare vincente.
Uno spazio notevole viene dedicato allo spaesamento provocato dalla pandemia di Covid-19, uno smarrimento che in fondo ci ha riguardato tutti da vicino e forse non ha ancora trovato ampio margine narrativo nel romanzo contemporaneo. La malattia scorre sottotraccia nelle storie, intessendo il filo angosciante di un’esperienza condivisa. Michela Murgia, sin dal principio che meglio riflette la sua esperienza autobiografica, pone l’umanità dinnanzi a una realtà ingovernabile. Poteva caricare questo libro di pietismo, narrare di sé stessa, invece sceglie di tramutare il personale in collettivo e – di conseguenza – in politico. Tutte le storie sono collegate da un’unica voce, che rivela la complessità dei suoi mondi.
Sino all’ultima metamorfosi:
Mentre il vento calante lasciava i vestiti rigidi sulle grucce, pelli di rettile, mute del serpente che era stata sua sorella, velenosa e calda, piena di spire.
Il dodicesimo racconto, l’ultimo, si ricongiunge al primo chiudendo il cerchio. La narratrice del racconto iniziale è una donna che scopre di avere una malattia terminale; il libro si conclude dopo la sua morte, quando la sorella decide di organizzare una bizzarra cerimonia funebre in giardino per distribuire i vestiti della defunta tra le persone che le sono state vicine. Ogni capo d’abbigliamento diventa così metafora di un modo di essere, di un’esperienza o di un ricordo, svelandoci la fisionomia complessa di un’identità multiforme. Ognuno di noi contiene moltitudini, lo scriveva anche Walt Whitman per dar conto della propria complessità. Michela Murgia sceglie di chiudere il suo ultimo libro con l’allegoria del serpente: una creatura ambigua, ma dalla forte carica simbolica. Il serpente appare come la più perfetta rappresentazione dell’inconscio e delle nostre paure, ma è anche il ritratto di un’umanità complessa e aggrovigliata su sé stessa, piena di contraddizioni e segreti.
La bellezza dei racconti-calamita di Tre ciotole, che afferrano il lettore senza lasciargli via di scampo, è perfettamente rappresentata dalle spire del serpente. Michela Murgia non scrive un libro-verità, un saggio sapienziale, ma compone un puzzle di racconti che annullano le risposte e moltiplicano le domande, senza tuttavia avere alcuna pretesa di insegnamento. Mette in scena la crisi, la perdita, il dolore e li lascia strisciare a terra come un serpente che fa la muta, facendo allargare silenziosamente la loro eco come cerchi concentrici sull’acqua.
Non pretende di scrivere un libro capace di dire tutto, la vita e la morte; ma come scrittrice decide di abitare le parole, disciogliersi nel caleidoscopio delle storie, sino a dire “I am”, io sono: questo è il mio elemento, la scrittura composta in sostanza di segni, grafemi, che infine si riducono a puro suono.
È il nome che la protagonista del primo racconto decide di dare al proprio tumore: “AM”, l’espressione coreana che traduce neoplasia. Il medico amabilmente la corregge dicendole che in fondo è un bel nome, perché ricorda l’inglese “I am” e dunque può significare: “Quello che ho è qualcosa che sono”. La protagonista è d’accordo e, dopo un attimo iniziale di smarrimento, decide di istituire con la malattia un patto di non belligeranza.
No, l’ultimo libro di Michela Murgia non è l’ultimo; perché non è un libro sulla morte, sulla fine, ma è un libro che parla di vita e di creazione e di quella straordinaria arte millenaria che è l’inventare storie.
Lascia i finali aperti perché sia il lettore ad abitarli con la facoltà esclusivamente umana dell’immaginazione; non poteva che essere questo il lascito di una scrittrice impegnata, un libro che si discosta dalla narrazione dell’Io, dall’egocentrismo imperante del sé, per dare voce al “noi”, dunque al fine primario della scrittura che è condivisione di una storia.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Perché “Tre ciotole” non è davvero l’ultimo libro di Michela Murgia
Naviga per parole chiave
Approfondimenti su libri... e non solo Narrativa Italiana News Libri Mondadori Libri da leggere e regalare Michela Murgia
Lascia il tuo commento