Nell’anniversario della morte di Vincent Van Gogh vi proponiamo un nuovo libro da leggere per osservare la vita del pittore olandese, genio tormentato e irrisolto, da un’altra prospettiva, prettamente femminile. Si tratta di Tre donne nella vita di Van Gogh dello scrittore francese Mika Biermann, di recente edito da L’orma editore nella traduzione di Chiara Licata.
Dall’infanzia agli ultimi giorni di Van Gogh attraverso una narrazione tripartita in tre sguardi di donna che scandiscono il tempo: il Vincent bambino è intrappolato negli occhi di Saskia, la guardiana di oche; la sua ardente gioventù è racchiusa nella modella Agostina Segatori, con cui il pittore ebbe una tumultuosa relazione passionale nei suoi anni parigini; infine c’è Gabrielle, la contadina di Auvers-sur-Oise, colei che Van Gogh incontrò nei campi proprio il giorno prima di morire.
L’esistenza di Van Gogh in queste pagine, in bilico tra narrazione biografica e invenzione letteraria, viene trasfigurata attraverso una prospettiva rovesciata: a dominare sono i colori che diventano vibrazioni, come l’azzurro oltremare e il bianco delle nuvole. Anche le sensazioni hanno un corrispettivo visivo: il calore è giallo, tutto si travasa nella pittura, l’emozione diventa impasto, tintura, vernice. Nelle sfumature rarefatte della narrazione già si delineano gli iconici quadri di Van Gogh, molto più che opere d’arte, ormai simboli della coscienza: girasoli, notti stellate, campi di grano, stanzette anguste che comunicano
Tutto ha inizio d’estate, quando regalano al piccolo Vincent una matita con cui può tracciare nuovi confini; tutto finisce d’estate, quando Van Gogh si allontana per sempre dal giallo accecante di quel campo di grano, il suo ultimo orizzonte.
Scopriamo di più sulla biografia di Mika Biermann.
“Tre donne nella vita di Van Gogh”: il libro di Mika Biermann
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Una biografia non convenzionale per conoscere un Van Gogh inedito, fuori da tutti gli schemi e persino dai pregiudizi che hanno a lungo inficiato la sua figura corrompendola nella visione sadica dell’artista maledetto.
In queste pagine udiamo il primo vagito, l’onomatopeico Nghè, nghè, di un Van Gogh bambino che presto riceverà in dono una matita con cui dare forma al suo mondo interiore, pulsante, talvolta persino sconveniente da mostrare. L’arte avrà la forma delle cose da non rivelare, come il corpo nudo della guardiana delle oche Saskia, che il piccolo Vincent scorgerà passando lungo il fiume mentre gioca a fare il moschettiere coi rami. La visione proibita gli costerà un sonoro ceffone e un naso sanguinante; ma tanto basta, perché sarà proprio il proibito di quella carne rivelata unito alla violenza dello schiaffo ad accendere in lui l’ispirazione per il suo primo quadro, La guardiana delle oche, ritratto come uno schizzo a carboncino. Mancavano però i colori, mancava la luce e il rosso che Saskia aveva sulle gote e sui seni.
Era un giorno d’estate: il cielo pulsava di una luce arancione, l’aria era mite. Vincent Van Gogh quella notte dormì sognando la guardiana delle oche e il fiume. Stava già dipingendo e non lo sapeva.
È sempre una luce estiva a guidare Vincent Van Gogh mentre dipinge il corpo di Agostina, la sua musa nascosta nelle soffitte di Parigi. Lui si è appena stato licenziato dall’ultimo lavoro; gli restano tre anni da vivere e ancora non lo sa. La sua arte è più vitale che mai in quel periodo di passione e assenzio, riesce a dipingere un quadro in due giorni e mezzo con un ritmo impressionante. Agostina ha quarantacinque anni e qualche filo d’argento tra i capelli; è già stata la musa di Manet e di molti altri pittori di cui avrebbe capito che faceva meglio a non innamorarsi. Insieme, Vincent e Agostina, parlano dei sogni, di visitare l’Italia, di fare tappa a Roma e lasciare un fiore sulla tomba di Caravaggio senza passare da San Pietro. Per un attimo Van Gogh immagina una vita diversa: in Italia sposerà Agostina e, per sopravvivere, farà il pescatore su una barca a remi. Sarà più felice, allora? I suoi sogni sono vacui e torbidi, nutriti d’assenzio. Ma la realtà si rivela essere l’opposto dei sogni, è quel luogo sporco dove dei corvi si accapigliano per sventrare un sacco di farina. La fine sarà segnata dall’arrivo dell’inverno: nel febbraio del 1887 Vincent e Agostina si diranno addio mentre la neve ricopre le strade e cancella i ricordi.
Il pittore morì a soli trentasette anni, nel pieno di un luglio rovente che declinava nell’estate pura: si uccise con un colpo di pistola nel mezzo di un campo di grano, questa la tesi più accreditata, la tesi ufficiale, ma non è detto che sia vera, negli anni sono stati avanzati alcuni dubbi in proposito. Nel romanzo, Biermann affida la verità agli occhi di Gabrielle, l’ultima testimone: solo lei può sapere, ma è anche colei che non sa, l’aiuto mancato, la mano che Van Gogh non ha afferrato. I due personaggi, la donna e il pittore, appaiono complementari, entrambi hanno i capelli rossi, le loro azioni si volgono in parallelo in quell’ultimo giorno segnato da oscuri presagi di morte. In lei si avvera un ultimo quadro che non sarà mai dipinto: “Paesaggio con donna e cavalla”.
Nell’epilogo ritroviamo l’artista solo nella sua stanza alla locanda:
Gli rimangono trentacinque ore da vivere e zero quadri da dipingere.
Questa la morte di Van Gogh ritratta da Biermann: il tempo viene letto in relazione all’arte, in un rapporto di stretta interdipendenza, di necessità. Senza arte non c’è vita; dove finiscono i quadri da dipingere lì si interrompe anche il flusso vitale. Un artista, del resto, è interamente contenuto nella sua opera: la misura della sua esistenza è nell’astrazione. Quel “zero quadri da dipingere”, quindi, ci dà l’esatta misura della sua agonia. La pittura non riesce a contenere la vastità della vita, questa la suprema verità che Van Gogh non accetta. La sua ultima ambizione è quella di dipingere il mare, l’infinito a portata dell’uomo, l’immensità dell’acqua che “non si può svuotare in un bicchiere”. Quel suo ultimo giorno di vita sulla terra, Vincent Van Gogh non pensa alla morte, ma alla pittura (tubetti e pennelli, tintura fresca), a ciò che riusciva a dare un senso all’ignoto contenuto nella progressione infinita del tempo.
La pittura, scrive Mika Biermann, è un “assassinio del buonsenso”. Il delitto, dunque, si compie nell’arte o nella vita? È stata la pittura a uccidere Van Gogh?
Tutte le immagini spariranno, questa rivelazione, espressa nella lettera al fratello Theo, annienta il genio dell’artista perché per lui senza pittura non c’è vita, senza quadri da dipingere si spalanca il baratro della morte. Tutto ciò che vede Van Gogh è arte, finché non chiude gli occhi.
Tutto è divenire e incertezza.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Tre donne nella vita di Van Gogh”: un libro da leggere per l’anniversario del pittore
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