Un inverno freddissimo
- Autore: Fausta Cialente
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Nottetempo
- Anno di pubblicazione: 2022
Fausta Cialente non si limita a scrivere dell’inverno, te lo fa vivere, te lo fa sentire sottopelle come punte d’aghi ghiacciati, gelido e insidioso nella nebbia filacciosa, una stagione senza fine, un’oscurità prolungata in cui la terra sembra raccogliere la sua fatica.
Un inverno freddissimo (nottetempo, 2022, prefazione a cura di Emmanuela Carbé) è ambientato a Milano nel 1946, nel secondo dopoguerra, quando la città - e l’Italia intera - ferita e sfregiata, tentava con sforzo di risollevarsi dalle sue macerie.
I marciapiedi sono cumuli di neve sporca, la stessa neve pesa sulle tegole delle case e scricchiola sul tetto della soffitta dove vive Camilla, una donna tenace, che lotta per mantenere unita la famiglia già in parte smembrata da lutti e abbandoni. La sua figura di matriarca ricorda la signora Ramsay narrata da Virginia Woolf: Camilla è una donna sola (“una donna sola, ecco quel che sono”, lo dice lei stessa) e proprio nella sua individualità esasperata risiede tutto il fascino del personaggio che, non a caso, porta il nome di una guerriera: l’amazzone Camilla, regina dei Volsci, descritta da Virgilio nell’Eneide. Della guerriera ha la tempra resistente, eppure nel quotidiano la Camilla di Cialente è una donna mansueta, una madre che si angoscia per il destino dei suoi figli, “donna matura e giovane insieme” così viene descritta, appartiene a quella parte di umanità piccola, minuta, non eroica, presa delle fatiche del quotidiano, ma non rassegnata.
Il marito l’ha abbandonata, è fuggito chissà dove, e lei con i ricordi ritorna spesso a un’estate dorata in cui lei era giovane, i bambini erano piccoli e la felicità sembrava ancora una meta raggiungibile. Si distoglie presto, però da quelle fantasie e si impone di rimboccarsi le maniche; l’aspetto più interessante del personaggio non è tanto nella lucida praticità dei suoi gesti, quanto nella sua resistenza, nella vitalità del suo desiderio che ostinato resiste nonostante tutto.
Non è Camilla tuttavia l’unica protagonista della vicenda: Un inverno freddissimo è sì un romanzo d’interni, giocato tutto in spazi chiusi, claustrofobici, ma è anche un romanzo corale. Ogni personaggio sembra essere un riflesso della scrittrice stessa che, come un prisma ruotante si frantuma alla luce in un caleidoscopio di colori e immagini. Ritroviamo Cialente, sminuzzata, frammentata, dispersa in ciascuno dei suoi personaggi che muove con abilità sapiente sul palcoscenico da lei stessa allestito.
C’è la bella Alba che sogna di fuggire da una vita in cui si sente prigioniera; l’antifascista Enzo, lo “sradicato”, che porta con sé il ricordo della sua esotica vita levantina e il fantasma di un amore; l’audace Lalla che trasforma ogni evento in racconto e sogna di diventare una scrittrice. Questi i personaggi più affascinanti, ma non sono da meno il musicista Arrigo; l’aspirante attore Guido; la ragazza-madre Regina e l’annoiata Mirella che parla francese e cerca di darsi un tono con arie da gran dama che mal si addicono al miserevole contesto.
Camilla raduna sotto lo stesso tetto questa variegata umanità: i suoi tre figli, il nipote e la sua sposa, persino la fidanzata di Nicola, il nipote morto in guerra, e la sua bambina appena nata; c’è pure il vicino di casa, fervente antifascista, che ormai è divenuto di famiglia. La donna crea così un bizzarro nucleo familiare allargato in cui i componenti non potrebbero essere più diversi, ma non mancano di aiutarsi l’uno con l’altro incalzati dal freddo incipiente e dalla miseria. “L’albergo dei poveri”, così si chiama la soffitta di Camilla, diventa quindi suo malgrado un luogo accogliente, un rifugio sicuro, che sembra proteggere dalle insidie della vita che, là fuori, morde senza pietà.
“Mi sembra che fino a un certo momento siamo stati felici tutti qui dentro…ma nessuno di noi l’aveva capito.”
afferma nostalgicamente la piccola, saggia Lalla nella conclusione, quando ormai la tragedia si è compiuta.
Perché la vera protagonista di questo romanzo è la morte, celata nella metafora dell’inverno freddissimo e, in un certo senso, anticipata dalle numerose presenze-assenze che popolano il romanzo sin dall’incipit.
Non sarebbe un errore definirlo una “storia di fantasmi”, dato che tutti i protagonisti si trovano loro malgrado a evocare uno spettro, a confrontarsi con l’enigma di un’assenza - che sia il defunto Nicola, il padre scomparso o l’amata Daniela.
Sulla contraddittorietà della vita, del resto, vertono gran parte delle riflessioni, dei sentimenti e dei presagi: dal principio, come in un’ouverture, è il volo dei colombi ad annunciare l’inizio dell’inverno che calerà sulla città come una coltre scura. Gli uccelli si alzano in volo “a un segnale prestabilito” e da quel momento sulla “città dolente” sembra scendere un’ombra perpetua, una specie di sortilegio malefico.
È l’inizio di un inverno che non concederà a Camilla e alla sua famiglia la tregua promessa dalla fine della guerra.
La storia si chiude con l’inizio della primavera, a lungo invocata, che sembra arrivare troppo tardi disattendendo ogni promessa di salvezza. Saranno i germogli in fiore a ispirare alla donna una delle più verità più intense e vibranti dell’intero romanzo, che sembra riecheggiare Gita al faro della Woolf:
Lo volesse o no, lei stava nel mezzo di una continuità – e la continuità è l’eterno.
Proviamo struggimento per questa donna che incarna il materno nella sua forma più pura ed estrema: la volontà di proteggere, accogliere, custodire, e viene tradita pur nella sua resistenza paziente, stoica, coriacea. La vediamo infine mentre trova la forza di risollevarsi, muovendo piccoli passi lenti sulla neve che si scioglie, e andare incontro nonostante tutto a un’incerta visione di futuro perché in lei sembra soffiare lo stesso spirito impetuoso della forza vitale che – malgrado ogni avversità – non si arresta, non conosce posa.
Camilla è una presenza a cui tutti vorremmo aggrapparci, sorreggerci, nella certezza di trovare in lei consolazione.
In quella misera soffitta di Milano, durante un inverno freddissimo, c’era una gioia minuta, fragile, ma viva, come una fiammella che balugina nel buio e piano lo rischiara. Forse la felicità non è altro che questo – un’umanità che litiga, si arrabatta come può e si lagna, ma si scalda col fiato – e noi non ci accorgiamo mai di averla così vicino.
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