Un paesaggio di ceneri
- Autore: Elisabeth Gille
- Casa editrice: Marsilio
- Anno di pubblicazione: 2014
“No!” disse Léa. Nello stanzone del convento di Bordeaux in quella notte del 1942 una minuscola creatura coraggiosa urlava con tutta se stessa contro il destino avverso, le “pinguine” monache insensibili e quel mondo crudele che l’aveva strappata ai suoi genitori.
“Non abbiate paura, bambine, ecco qui una nuova compagna arrivata in piena notte semplicemente perché il suo treno era in ritardo. Faremo le presentazioni domani. Per il momento sappiate che si chiama Léa e ha cinque anni”.
Suor Saint-Gabriel non era riuscita a strappare alla piccola ostinata la sua bambola, ultimo retaggio della sua vita felice, sarebbe tornata più tardi quando Léa vinta dalla stanchezza si sarebbe addormentata stremata accanto a Bénédicte di due anni più grande, la quale da quel momento in poi avrebbe vegliato su quella bambina paffuta, riccioluta e ribelle. Poco dopo Suor Saint-Gabriel dopo aver tolto piano dalla manina di Léa la bambola e i suoi vestiti, l’abito scozzese di lana soffice con le maniche a palloncino, il colletto di piqué bianco e le scarpe a strisce, era scesa in cucina dove era bruciato tutto quello che aveva sui fornelli. Nella Francia occupata e in una Bordeaux stretta nella morsa dell’assedio nazista, nessuno doveva sapere che Léa proveniva da una famiglia israelita di origine russa convertitasi nel 1939 qualche mese dopo la dichiarazione di guerra. I gendarmi francesi avevano arrestato i genitori della bambina che, dopo aver sostato nel campo di Mérignac, sarebbero stati condotti alla periferia di Parigi, a Drancy.
“E poi? Questo nessuno lo sa. Si parla di campi di lavoro, da qualche parte in Polonia”.
Solo Léa era riuscita a scampare alla retata grazie all’aiuto dell’organizzazione israelita.
“I genitori si ostinavano a non volerla lasciare. Non erano al corrente della nuova circolare, quella che autorizza a portare via anche i figli. Ho faticato molto a convincerli”.
Ora, escluso il documento di battesimo ficcato in fondo alla tasca di Suor Saint-Gabriel, non restava più niente di quella che era stata l’identità di Léa Levy, piccola selvaggia indisciplinata, insolente e orgogliosa che si succhiava il pollice. Le compagne del collegio erano quasi tutte figlie di commercianti, negozianti di vino o proprietari terrieri bordolesi, dalle cui famiglie ricevevano regolarmente i famosi supplementi “burro, miele, marmellata, custoditi nel cofanetto di legno accuratamente chiuso con il lucchetto di cui conservavano la chiave infilata alla collanina in oro che pendeva dal collo e alla quale era appesa una medaglietta o la croce del battesimo”. Léa e Bénédicte, figlia di Jean-Pierre e Jacqueline Gaillac militanti nella Resistenza, non ricevevano nessun supplemento e nessuna visita dai parenti. L’amicizia tra le due bambine che si rafforzava giorno dopo giorno, doveva probabilmente molto a quelle giornate solitarie trascorse nel collegio deserto durante le pause scolastiche proprio nel periodo (1942-43) nel quale Bordeaux veniva sempre più stretta in una morsa a causa della sua strategica posizione: spedizioni punitive, retate, arresti di massa di resistenti. Nel frattempo Léa cresceva superando ogni limite dell’indisciplina, lo zero in condotta fioccava. Nella mente intelligente di questa ingovernabile bambina, più il tempo passava più il volto dei genitori sfumava nella sua memoria. Più i ricordi si sbiadivano più Léa ne inventava, raccontava che i genitori si trovavano in America,
“sono fortissimi e ricchissimi, quando torneranno a prendermi, mi porteranno tante cose belle e uccideranno tutte quelle che sono state cattive con me”.
Queste spavalde dichiarazioni le erano valse prediche e punizioni ma non cambiava mai.
“Il grembiulino strappato, il colletto di traverso, sembrava un diavolo e, vedendola, le religiose si facevano di nascosto il segno della croce”.
Un passaggio di ceneri (Marsilio, 2014, titolo originale del volume Un paysage de cendres, traduzione e cura di Cinzia Bigliosi) è lo specchio fedele dell’infanzia di Elisabeth Gille (1937 – 1996), figlia minore della grande scrittrice Irène Némirovsky (1903 – 1942) appartenente a una ricca famiglia di emigrati russi di origine ebraica riparati a Parigi in seguito alla Rivoluzione Russa del 1917. Quando l’antisemitismo in Francia si era fatto sempre più minaccioso, Irène, sposata con l’ingegner Michel Epstein, aveva deciso di farsi battezzare insieme alle proprie figlie Denise ed Elisabeth ma nonostante ciò fu arrestata nel luglio del 1942 e deportata nel campo di concentramento di Auschwitz, dove morì di tifo un mese dopo. La stessa sorte sarebbe toccata nello stesso anno al marito, gasato appena giunto nel medesimo campo di sterminio. Nell’autunno del 1942 le piccole insieme alla pesante valigia di cuoio con le iniziali I. N. contenente il manoscritto di Suite francese (romanzo capolavoro di Maman), accudite da Julie Dumot, la bambinaia alla quale il padre aveva delegato la patria potestà, si rifugiarono in un pensionato cattolico di Bordeaux sotto falso nome. Alla fine della II Guerra Mondiale, dopo una serie di peregrinazioni in clandestinità, le ragazzine avrebbero atteso invano prima alla Gare de l’Est e poi sui marciapiedi dell’Hotel Lutezia, il ritorno dei genitori. Come ricorda Cinzia Bigliosi
“non potendo più vivere, Denise ed Elisabeth Epstein dovettero imparare a sopravvivere”.
Se Denise dedicò l’intera esistenza alla memoria della Shoah e della madre, Elisabeth tentò di costruire tra sé e il mondo un muro di impenetrabilità. Nel 1992 l’autrice, importante editor, pubblicò Mirador (Mirador: Irène Némirovsky, mia madre. Fazi 2011) uno struggente miscuglio di “memorie sognate” e di ricordi.
In tutte le pagine di questo suggestivo romanzo, vincitore del Grand Prix des Lectrices di Elle, domina lo sguardo di Léa, simile a una pozza nera che si posava sulle persone senza dare l’impressione di vederle. Impossibile da dimenticare l’infanzia e l’adolescenza di Léa Levy, che continuava risoluta a ribellarsi a ogni tentativo di avvicinamento.
“In fondo, quella bambina non sapeva niente di se stessa, niente delle proprie origini e della propria identità. Non era che terra bruciata, un paesaggio di ceneri”.
Un paesaggio di ceneri
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