Una vita come tante
- Autore: Hanya Yanagihara
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Sellerio
- Anno di pubblicazione: 2016
Una vita come tante (Sellerio, 2016 traduzione di L. Briasco) è il secondo romanzo di Hanya Yanagihara. Vincitore del Kirkus Prize, finalista al National Book Award e al Booker Prize, è un testo monumentale, che è stato apprezzato in tutto il mondo.
L’autrice, mettendo in scena pochi personaggi, è riuscita a creare una storia dal respiro universale, raccontata con un realismo che ne rende la lettura un’esperienza dolorosa e totalizzante. Il testo, modernissimo, ma in cui non mancano reminiscenze letterarie che lo accostano a grandi classici del passato, è retto da una struttura così ben articolata da rendere quasi insufficienti più di mille pagine per contenerla.
Su questo libro si potrebbero dire tante cose, eppure ho l’impressione che non sarebbero mai abbastanza: forse è proprio in questo scarto che risiede la prova del suo valore.
La vicenda comincia a New York quando Willem, Malcolm, JB e Jude, quattro amici poco più che ventenni, hanno recentemente concluso il college.
Willem, il più bello, è un aspirante attore che lavora come cameriere; Malcolm è un architetto che non ha ancora capito cosa vuole dalla vita; JB è un artista o almeno spera di diventarlo, allegro e spaccone; poi c’è Jude, il riservato e gentile Jude, che lavora come avvocato.
Hanno condiviso lo stesso appartamento durante gli anni del college e conoscono tutto del loro passato. Sanno, per esempio, che Willem è orfano; sanno che il padre di Malcolm, nonostante fosse nero, era riuscito a diventare il direttore finanziario di una grande banca; sanno che il padre di JB era morto quando lui aveva solo tre anni.
E Jude? Dov’è nato? Chi sono i suoi genitori? Cosa gli ha causato quegli atroci dolori alle gambe? Sul suo passato vige un feroce silenzio. Eppure è chiaro a tutti
che deve essergli accaduto qualcosa di estremamente grave.
Gli anni passano e ognuno di loro, in un modo o nell’altro, diventa adulto.
Per Jude è diverso però: lui, adulto, lo è sempre stato. Crescere non lo spaventa, semmai è il passato a tormentarlo.
Ogni mese, ogni settimana decideva di aprire gli occhi per vivere un altro giorno nel mondo. Lo faceva anche quando si sentiva così male che, a volte, era come se il dolore lo trasportasse in un altro stato, nel quale tutto, perfino il passato che cercava disperatamente di dimenticare, sembrava assumere i toni grigi e sbiaditi di un acquerello. Lo faceva quando i ricordi spazzavano via tutti gli altri pensieri, quando serviva uno sforzo enorme, una grande concentrazione, per rimanere attaccato alla vita attuale senza lasciarsi travolgere dalla disperazione e dalla vergogna.
Nei brevi intervalli in cui riesce a mettere a tacere i ricordi (le belve, come li definisce lui), il presente lo reclama, un presente in cui è un avvocato di successo e può perfino fingersi normale.
Normalità e giornate scandite da semplici rituali domestici sono le uniche forme di felicità che riesce a concepire; le insegue continuamente e vi si aggrappa con tutto se stesso. Se gli capita di riuscire ad afferrarle, la pagina si illumina e la narrazione rallenta:
In quelle domeniche, mentre si preparava per le sue passeggiate, a volte si fermava in cucina, scalzo, circondato dal silenzio, e l’angusto, orribile appartamento gli sembrava meraviglioso. Lì, il tempo e lo spazio appartenevano a lui, e ogni porta, ogni finestra poteva essere chiusa.
Poi però il tempo ricomincia a scorrere. Gli anni diventano fotogrammi di una pellicola riprodotta a velocità altalenante.
Ma c’è un istante, subito prima che salgano verso la casa e Jude venga loro incontro, nel quale ognuno rimane fermo al suo posto, e a Willem sembra quasi di trovarsi sul set di uno dei suoi film, dove ogni scena può essere riprovata più e più volte, ogni errore può essere corretto, ogni dolore riproposto, all’infinito. In quell’istante loro tre occupano un lato dell’inquadratura e Jude quello opposto, ma stanno sorridendo tutti, e sembra che nel mondo vi sia spazio solo per un’infinita dolcezza.
Il mondo è un luogo in cui il male può assumere qualsiasi forma: Jude lo sa. Come sa che ogni felicità si sconta e che spesso dietro la dolcezza si cela l’orrore.
I suoi pensieri ‒ una lotta convulsa tra purezza e corruzione ‒ cominciano a scorrere più copiosamente sulla pagina man mano che la storia procede. Lui li lascia fluire mentre osserva il sangue sgorgare dalle ferite che si procura.
Noi lo osserviamo, impietriti, ma avidi di nuovi dettagli; vogliamo sapere tutto e non solo sul suo conto: ogni personaggio, infatti, è un capolavoro di introspezione, che cattura l’attenzione e fornisce un altro punto di vista da cui osservare i fatti.
Il continuo cambio di focalizzazione fa sì che il lettore sia ovunque: è nel corpo martoriato di Jude, in quello virile di Willem, nei quadri di JB, nella grigia stanza di Malcolm. È nella mente di ognuno di loro e sono tutte così disperatamente realistiche che abbandonarle, una volta conclusa la lettura, è l’ennesima crudeltà che Una vita come tante impone al lettore.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Una vita come tante
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