Una vita sospesa 1938-1945
- Autore: Giulio Levi
- Genere: Storie vere
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Castelvecchi
- Anno di pubblicazione: 2016
Nel volume “Una vita sospesa 1938 - 1945” (Castelvecchi 2016, Introduzione di Marta Fattori) di Giulio Levi, l’autore, specializzato in malattie nervose e mentali, ricostruisce un periodo cruciale della vita del padre Sergio (Firenze, 25 febbraio 1910 - 27 settembre 1966), uno dei pionieri della neuropsichiatria infantile in Italia.
Nel libro dedicato al padre a cinquant’anni dalla sua scomparsa e a sua madre che accompagnò con amore per trenta anni di matrimonio il marito, sopravvivendo per quasi mezzo secolo nel suo ricordo, il figlio Giulio, attingendo a numerose fonti (gruppi di lettere familiari, e documenti dell’Archivo Federale Svizzero), racconta la storia di un uomo al quale venne impedito di lavorare. Costretto per sette anni a condurre una vita sospesa.
“In ottemperanza alle norme contenute nel Regio Decreto Legge 5 settembre 1938 XVI Anno dell’Era fascista. Vi comunico che con decorrenza 16 ottobre p. v. siete sospeso dalle funzioni di assistente volontario fino a contraria disposizione”.
Firmato il Rettore Arrigo Serpieri. Era questo il contenuto della lettera raccomandata che il portiere dell’ospedale universitario Mayer (detto “ospedalino” perché vi si curavano solo bambini) aveva consegnato il 13 ottobre 1938 a Sergio Levi, giovane pediatra fiorentino di 28 anni che lavorava al Mayer. “Sospeso dalle funzioni”, in pratica licenziato. Levi aveva letto sul “Giornale d’Italia” del 15 luglio scorso un documento “Il fascismo e il problema della razza” noto come “Il manifesto della razza”, redatto da dieci scienziati in cui si affermava che
“gli ebrei non appartengono alla razza italiana”
e che sono
“l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia, perché essa è costituita da elementi razziali non europei”
e altre frasi che erano parse a Levi farneticanti. Ma Sergio non gli aveva dato troppo peso, pensando che fosse una nuova aberrante forma di propaganda del regime fascista e non aveva ancora avuto notizia del regio decreto citato dalla lettera che aveva appena letto. Levi non riusciva a capacitarsi, l’Italia non era la Germania, ora le cose si mettevano davvero molto male per chi come lui apparteneva alla razza ebraica. Da quel momento in poi la storia individuale di Sergio Levi, sposato con Tilde, un figlio piccolo, Giulio, al quale si sarebbe aggiunta nel ’39 Silvia, sarebbe andata a incrociarsi con la Storia. Stava per iniziare quel peregrinare nel vecchio continente di una famiglia ebraica della media borghesia che avrebbe condotto i componenti a cercare rifugio nella campagna fiorentina per finire poi, nel frattempo era scoppiata la II Guerra Mondiale, in Svizzera nel marzo del 1944 costretti a vivere in un campo profughi. I genitori e un fratello di Sergio Levi sarebbero morti nel campo di concentramento di Auschwitz.
“E adesso cosa posso fare? Devo rinunciare ai miei studi, alla mia carriera, all’aggiornamento professionale? Curare bambini solo privatamente?”.
Un racconto-testimonianza corredato da fotografie in bianco e nero, lucido e scarno di quei sette anni di sospensione vissuti in un limbo fatto di fughe, nascondigli, paure e ansie. Nel 1946 Sergio Levi fu nominato Direttore dell’Istituto Medico Pedagogico Umberto I di Firenze. Mantenne quella carica fino alla sua precoce morte avvenuta nel 1966. In quei venti anni rinnovò e modernizzò i metodi terapeutici e riabilitativi da applicare a ragazzi e ragazze con disturbi cognitivi e caratteriali, facendo dell’Istituto un centro noto in tutto il Paese e modello per la programmazione di nuove istituzioni in varie regioni italiane. Negli anni Cinquanta Sergio incontrò Giovanni Bollea (fondatore dell’Istituto di Neuropsichiatria Infantile di Roma) col quale sviluppò un’intensa collaborazione e una profonda amicizia. Levi pubblicò numerosi lavori e alcuni libri che furono adottati per molti anni da assistenti sociali, psicologi e altri operatori nel campo dell’Igiene Mentale.
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