Una vita su misura
- Autore: H.M. van den Brink
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Marsilio
- Anno di pubblicazione: 2021
Una vita su misura (Marsilio, 2021, traduzione di Stefano Musili e Claudia Di Palermo) del giornalista, scrittore e saggista olandese H.M. van den Brink è la prova che a un grande scrittore non servono argomenti “importanti”. Al contrario, sono i grandi scrittori a dare importanza agli argomenti trattati, anche se apparentemente di relativo interesse.
Come la vita di due uomini, trascorsa al servizio dell’Ufficio Pesi e Misure di Amsterdam: priva di avvenimenti particolarmente significativi, se non fosse per la mancata partecipazione di uno di loro, Karl Dijk, al rinfresco organizzato per il suo pensionamento.
Non è stato più visto, da allora, almeno fino al momento in cui comincia a mostrarsi al collega – il narratore, di cui non conosceremo il nome, ma solo che è sposato e che ha due figli – in un sogno ricorrente, per poi materializzarsi al centro del salotto, con il suo muso lungo, l’espressione contrariata e l’impermeabile sbiadito bagnato sulla schiena e sulle spalle.
Il sogno, un brutto raffreddore associato a una febbre leggera e un colpo in testa contro una mensola non spiegano questa apparizione che, una volta svanita, rappresenta il motivo per cui l’uomo cerca di mettere ordine nei ricordi sparsi che ha in testa. Potrebbe cominciare dall’inverno del 1961, l’inizio di tutto; o dall’estate del 2007, la fine. O da entrambi, alternandoli.
La mattina del 2 gennaio 1961, due ragazzi camminano, poco distanziati l’uno dall’altro, lungo il Brouwersgracht, l’antico canale di Amsterdam su cui si affacciano magazzini e officine.
Sono diretti, per il loro primo giorno di lavoro, all’unico edificio che si distingue chiaramente dagli altri per le grandi finestre e le ampie porte a doppio battente: l’Ufficio Pesi e Misure.
La presentazione, una stretta di mano e il tentativo di gettare le basi per un buon rapporto con il collega, che risponde al nome di Karl Dijk– non Karel, come spiegherà molte volte negli anni successivi.
Un incrocio di sguardi, la prima impressione e la prima sigaretta fumata insieme:
“All’epoca non era costume raccontarsi vita, morte e miracoli al primo incontro. Non c’erano riunioni o “giri di presentazioni”. I rapporti fra le persone erano basati sulle loro azioni e non sulle loro ambizioni. In quel fumare senza dirsi nulla c’era più intimità di quanta ne bastasse”.
A diciotto anni – è nato nel 1943 – è consapevole del fatto che probabilmente trascorrerà un lungo periodo insieme a Dijk e che si vedranno invecchiare al servizio dell’Ufficio Pesi e Misure, un’istituzione protetta da norme di legge legate al metro e al chilogrammo standard conservati nel Pavillon de Breteuil vicino a Parigi:
niente di più stabile e rassicurante in un momento storico in cui:
“Il cambiamento perenne non era ancora stato inventato o, perlomeno non era ritenuto socialmente auspicabile. In quel periodo il progresso veniva chiamato «ripresa», parola con cui ci si riferiva a qualcosa che doveva essere solido, robusto”.
Nei primi mesi, il loro lavoro consiste principalmente nella gestione amministrativa dei controlli, per la sezione Vigilanza, su pesi e bilance che vengono portati in sede dai proprietari dei negozi, poi, per la sezione Verifica, cominciano a viaggiare per fare ispezioni a sorpresa presso quei commercianti e quelle attività che non si sottopongono a verifica da qualche tempo, nuovi negozi o, più semplicemente, contadini che vendono frutta lungo la strada:
“Non importava che nei primi anni ci fossero solo due auto di servizio e che perciò il viaggio andasse fatto in treno o in autobus e poi in bici o a piedi. […] Eri via dall’ufficio, te ne andavi all’avventura con il tuo borsone, il libretto delle ricevute e la tua autorità legale. Un’avventura modesta, limitata alle sobrie vie di negozi e aziende laboriose di un paese che ancora stava risorgendo dalla ceneri, ma pur sempre un’avventura. Questo sembrava”.
Nulla però è immutabile: le regole rimangono, ma perdono la loro importanza, perché il controllo non frutta denaro e frena la crescita delle imprese; la sede dell’Ufficio viene spostata, il servizio privatizzato, molti dipendenti se ne vanno o viene proposto loro il prepensionamento.
Solo Dijk sembra immutabile, granitico nelle sue convinzioni, e tuttavia è diventato un uomo chiuso, isolato, troppo serio, incapace di fare battute, di ridere e di omologarsi.
Quando gli viene proposto di lasciare in anticipo il posto di lavoro – un licenziamento a tutti gli effetti –, col collega ha ormai un rapporto di carattere puramente professionale:
“È per comodità che nella mia mente la vita di Dijk è sempre rimasta vuota? Voglio dire: che a riempirla fosse soltanto il lavoro, mentre per me il lavoro era solo una delle tante cose?”
Incaricato di scrivere il discorso per il pensionamento di Dijk, il narratore viene in possesso del suo fascicolo personale che, fra l’altro, contiene alcune lettere anonime che denunciano il presunto rapporto della madre con un ufficiale tedesco e insinuazioni sul suo orientamento sessuale.
Il discorso sarà pronunciato dalla direttrice che, come tutti i presenti al rinfresco, non sa nulla di Dijk e del perché non si sia opposto al licenziamento:
“Anche lui era diventato un pezzo da museo – anzi, peggio ancora: un souvenir in vendita al negozio di un museo. Oggi era già ieri e in quell’ufficio zeppo di dimostrazioni Dijk aveva scoperto di essere accerchiato dalla realtà del domani”.
Una vita su misura è un romanzo è ben costruito, che si sviluppa a partire da diversi spunti narrativi che si alternano stratificandosi.
Innanzitutto, il mistero del sogno ricorrente in cui il narratore riconosce il collega di un tempo; poi, l’incarico di scrivere il discorso per il suo pensionamento, con “i punti salienti” di una carriera che non ne ha affatto avuti; il momento imbarazzante in cui la direttrice, nonostante l’assenza del festeggiato, legge il discorso; infine, gli alti e i bassi della carriera lavorativa del narratore.
A prima vista sembrerebbe un romanzo nostalgico sui ricordi e sul passato – e per certi versi lo è –, ma è un libro di più ampio respiro, che affronta molti temi, come la scomparsa della piccola borghesia; l’aspetto eroico dell’esistenza quotidiana, che merita di essere descritto; il mondo fatto di piccole botteghe, bilance, masse e grandezze, che ha ceduto il posto a bilance elettroniche e ai cibi preconfezionati; il difficile rapporto tra l’individuo e il mondo in evoluzione e i suoi cambiamenti; la percezione dello spazio e del tempo.
C’è stato un periodo in cui sembrava prevalere un ordine basato su una serie di principi e di verità sociali, religiose e politiche; stabile, proprio come i modelli per la lunghezza e il peso – le unità di misura fondamentali in platino e iridio conservati a Sévres.
Poi, tutto è stato messo in discussione: il metro, ad esempio, oggi definito non più rispetto alle dimensioni della Terra, ma rispetto all’unità di tempo (è pari alla distanza percorsa dalla luce nel vuoto in una frazione di secondo), inoltre, ci si è accorti che il campione di peso, pur conservato con la massima cura, ha subito delle microvariazioni della massa, così da spingere gli studiosi a stabilire la nuova definizione di chilogrammo basata non su un campione fisico, ma su una “costante fisica”, che non cambia nel tempo.
È come se la realtà sia stata sostituita da simboli – nel romanzo ne sono un esempio i piccoli pesi giocattolo sulla scrivania della direttrice – e non esista più alcun punto di riferimento:
“È così che avvengono i cambiamenti. Non con clamore, ma più o meno per caso, senza quasi che nessuno se ne accorga, lentamente e con prudenza, sotto voce, goccia dopo goccia, finché a un certo punto è troppo tardi per rimediare”.
Il tempo, per l’autore, non è un concetto lineare, bensì – senza scomodare le teorie della fisica – relativo, perché la coscienza e la memoria sono più forti della realtà stessa. Il tempo ha una dimensione puramente legata al soggetto, così come lo “spazio relativo”, che è variabile nel corso del tempo e può essere visto come un prodotto sociale, che riflette le attività e le interrelazioni tra di esse.
Emblematico, in questo senso, è l’espediente dell’orologio alla parete della cucina:
“Ogni tre mesi devo prendere una scaletta per spostare la lancetta lunga, rimasta indietro di qualche minuto. Lo ammetto: una volta l’avevo spinta in avanti di proposito per mettere fretta ai ragazzi la mattina. […] Non fu bello da parte mia, ma funzionò. Finché loro non lo scoprirono e cominciarono a tener conto del tempo rubato. Allora portai di nuovo indietro la lancetta dei minuti, ma non servì a niente. Sembrava che i ragazzi fossero rimasti in quell’altro tempo, guardavano me e l’orologio con ironia, benché spostando la lancetta la prima volta non avessi davvero inteso allontanarli da me”.
Dopo il suo pensionamento, per il narratore il tempo e lo spazio si mescolano, lasciandolo confuso e solo:
“Nello studio lessi diligentemente ma controvoglia i due libri sulla stria dell’Ufficio che i colleghi mi avevano regalato per la pensione. L’avevano fatto con un intento cordiale, per riempire il vuoto delle mie giornate. Ma quel vuoto, piuttosto, l’avevano accentuato. Cosa me ne facevo del passato del mio lavoro senza il presente?
Dopo aver grattato e laccato di nuovo il corrimano della scala e fatto rimpiazzare i gradini, ormai quasi un anno fa, tutto era pronto. Ma pronto per cosa?
Temo che la comparsa di Karl Dijk, nei miei sogni, nel nostro soggiorno, dovunque e in qualunque momento, debba servire da risposta a questa domanda”.
Lo stile pulito e preciso di van den Brink è particolarmente adatto a questo genere di narrazione che non ha nella trama il proprio punto di forza, piuttosto nei contrasti, nella capacità di riportate in vita realtà, percezioni sensoriali, episodi e vissuti sconosciuti forse ai lettori più giovani, ma fortemente evocativi per quelli di “una certa età”.
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