Volontari della libertà. Biografie, miti e imprese dei garibaldini livornesi
- Autore: Marco Manfredi
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: il Mulino
- Anno di pubblicazione: 2022
Il più anziano dei garibaldini livornesi era quarantottenne e insieme a un quarantaseienne si allontanava di molto dall’età media dei Mille, ventitré anni. Due altri volontari labronici ne avevano appena quindici, Jacopo e Oreste.
Un altro giovane, portabandiera ventinovenne, cadde nel primo scontro a Calatafimi e un luogotenente ventiquattrenne fu tra i caduti al Volturno, nell’ultima battaglia della spedizione. Ben cinquantaquattro le camicie rosse di Livorno sbarcate a Marsala. Erano state diciotto tra i Cacciatori delle Alpi, al comando di Garibaldi nel 1859 e saranno ventidue nella terza guerra d’indipendenza del 1866. Si legge nel censimento citato da un ricercatore dell’Istoreco, Marco Manfredi, nel volume Volontari della Libertà. Biografie, miti e imprese dei garibaldini livornesi, pubblicato da il Mulino (2022, collana Percorsi-Storia, 296 pagine) su progetto dell’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea della provincia labronica, con il contributo di So.Crem Livorno.
Il garibaldinismo e il volontarismo fervevano ancora tanto tra i giovani del Livornese, che a quindici anni dalla scomparsa del generale Garibaldi la famiglia Sgarallino, di Andrea e Jacopo i due storici aiutanti labronici dell’Eroe dei Due Mondi, non incontrò difficoltà nel selezionare entusiasti partecipanti alla campagna di Creta del 1897, per liberare l’isola dal giogo turco. Sempre a fine ’800, qualcuno a Livorno avrebbe anche voluto organizzare una spedizione in Centro America, in aiuto dell’insurrezione indipendentista di Cuba. E si parlava con l’accento della città tirrenica anche tra i volontari dell’ultima impresa garibaldina, nei Vosgi, con l’uniforme della Legione dei nipoti di Garibaldi che combatté in Francia contro i Tedeschi nell’inverno 1914-15, prima dell’ingresso del Regno d’Italia nella Grande Guerra.
Marco Manfredi, dottore di ricerca e docente a contratto nell’Università di Pisa e in altri atenei, si è impegnato a mettere ordine e offrire una cornice di sistematicità e scientificità storica alla gran mole di documenti e memorie garibaldine della comunità livornese.
Se, come fa notare l’autore del saggio, il volontariato in armi ha costituito un fenomeno di enorme portata nella storia italiana e segnato in profondità la vicenda politica, a Livorno quanti avevano seguito Garibaldi “costituivano un ordine di milizia a sé che invano si tenterebbe di comporre nello stampo della milizia comune”. Valori e mentalità radicatissimi, un vissuto individuale e di gruppo intenso e unico, la rendevano una comunità distinta e separata. Di conseguenza, il garibaldinismo livornese non è finito più o meno rapidamente in archivio.
D’altra parte, anche quello italiano ha resistito parecchio prima di farsi da parte. La smobilitazione dell’Esercito meridionale garibaldino, decretata dal governo sabaudo nell’autunno del 1860, non ha segnato la fine di quella generosa esperienza in armi. Nella galassia del volontariato militare convergevano aspirazioni patriottiche sentite, componenti massoniche, visioni repubblicane e ardori giovanili, a lungo refrattari a ogni tentativo conservatore di normalizzazione istituzionale. Erano intellettuali e insegnanti, figli di possidenti e borghesi, artigiani e popolani, ragazzi motivatissimi e perfino tanti ragazzini, uniti tutti da un credo comune unitario, che annullava qualsiasi differenza di censo, di classe, d’istruzione e di vita stessa.
Doveroso domandarsi perché si sia saldato un legame tanto evidente fra la camicia rossa e Livorno. Occorre magari tornare alle origini della città, fondata dai Medici fra Cinque e Seicento, che conobbe un processo di politicizzazione di massa “di segno democratico così ampio” e capace di coinvolgere anche i ceti popolari. Un fenomeno che per modi e tempi sembra non avere uguali nella penisola.
Per Manfredi, la risposta risiede probabilmente nell’anomalia della nascita di Livorno, secondo un progetto di comunità:
Distante da un contesto tutt’attorno grondante di tradizione e Medioevo.
In una Toscana di patriziati e antiche storie civiche, si levava eretica, ritratta nell’Ottocento come più simile a una città americana che a una italiana.
La vocazione allo scambio, la presenza tollerata di minoranze nazionali e religiose (si pensi a quella ebraica), favorivano una circolazione molto più intensa di idee, persone e novità. A conferma, non si diceva a caso “Livorno italica capitale della massoneria”.
L’assenza di una tradizione aristocratica sfrondava il contesto politico-culturale e sfumava i confini tra classi e mestieri, molto rigidi invece nel resto d’Italia. Il predominio dei traffici assicurava una spiccata mobilità sociale.
In tutto il Paese, del resto, il volontario è stato centrale nelle vicende belliche italiane e sullo scenario internazionale, dalle campagne risorgimentali alla guerra di liberazione. Si possono distinguere almeno quattro macro-gruppi: i volontari pre-garibaldini 1820-1848, i volontari garibaldini tra il 1848 e la fine degli anni Sessanta dell’Ottocento, i volontari post-garibaldini tra il 1870 e la prima guerra mondiale e infine i volontari neo-garibaldini, nelle varie componenti della Resistenza.
Il docente e storico Fulvio Conti nella presentazione dal titolo Livorno caso anomalo di associazionismo diffuso di una sinistra radicale sospesa tra riformismo e tentazioni sovversive conclude che Marco Manfredi offre nuove e originali chiavi di lettura del volontariato ottocentesco, un fenomeno tornato al centro degli interessi della ricerca storica.
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