Antonio Rossetti

Nato sessantacinque anni fa, o giù di lì, a Piancastagnaio, sul monte Amiata, in provincia di Siena ma al crocevia di tre regioni, la rossa Toscana, la spirituale Umbria, l’agnostica Lazio: essere un apolide metafisico non è stata una scelta. Infanzia: più strada che libri, in un borgo che coniugava il crocefisso in chiesa e il poster del Che alla Casa del Popolo. Poi L’università a Firenze, economia, a seguire un lavoro nel campo della finanza (del resto, ho un corpo) ma con un inesausto amore per le storie, le fiabe, le poesie, i sogni… insomma per la Letteratura (del resto, ho uno spirito). Da qualche anno vivo meno intensamente, in compenso ogni tanto scrivo (nello scambio non c’ho rimesso): due romanzi – “Qualunque cosa sia dio” (2016) e “L’uomo dell’arco” (2023) - più di recente recensioni sui lavori di altri, che mi sembrano sempre migliori dei miei.
Credo che si debba chiudere con le intenzioni d’amore per i “grandi”, non mi sottraggo: Dostoevskij per l’ottocento, Borges per il novecento e DeLillo tra i contemporanei; credo, però, che Joyce abbia cambiato più di chiunque altro la storia della letteratura del novecento. Sui generi sono onnivoro, leggo di tutto – più letteratura straniera che italiana - con l’eccezione dei gialli, polizieschi, thriller: sarebbe lungo spiegare il perché ma in sintesi: secondo me, il canone imposto da questi generi limita la libertà dello scrittore e, di riflesso, stinge il colore dei sogni del lettore; l’ultimo capitolo come un vortice di forza di gravità necessariamente attrae tutto il resto verso la razionalizzazione dell’arcano (impresa che andrebbe dichiarata impossibile per i nostri umani, troppo umani, limiti): chi? Perché? Come? Ma forse mi sbaglio…