Walt Whitman non credeva che la vita di un uomo potesse essere racchiusa in una biografia. In un passo di una sua celebre poesia affermava:
Così qualcuno scriverà la mia vita, quando io sarò morto.
(Come se un altro potesse veramente conoscerne qualcosa,
se perfino io penso spesso che ne so poco o niente).
Con intelligenza il grande poeta americano, nato il 31 maggio 1819 a Long Island si faceva beffe di quanti in futuro avrebbero cercato di intrappolare la sua esistenza nelle spirali di una biografia, ordinandola in date e paragrafi, imprigionando il suo costante fluire in una forma. Per Whitman la vita era ben altro: un fiume in piena che rompe gli argini e tutto travolge, una progressione inesorabile, un’energia che si propaga dal corpo verso ogni atomo dell’esistente.
Link affiliato
Dunque in occasione dell’anniversario della nascita del grande poeta evitiamo qualsiasi pretesa biografica, e lasciamo che sia semplicemente la sua poesia a parlare. Proponiamo il celebre poema Song of Myself (Canto di me stesso, Ndr), composto nel 1855, e contenuto nella raccolta Foglie d’erba , con il quale Whitman fondò il “canone americano”. Tramite quel flusso di parole che si articolava in 52 strofe di versi liberi, il poeta riuscì a definire l’indicibile racchiuso nell’ardita metafora del cosiddetto “corpo elettrico” che fonda l’intero canto.
Di lui in seguito Ezra Pound disse: “Whitman è l’America”, ecco che un uomo era addirittura giunto a comprendere un’intera nazione attraverso la sue estensione corporea o, più probabilmente, attraverso la vastità della sua anima.
Lo scrittore Henry Miller elesse Whitman come maestro supremo, affermando che aveva raccontato l’America:
Tutto quel che c’è di valido in America, l’ha espresso Whitman, e non c’è altro da dire.
La peculiarità della poesia di Walt Whitman è che si tratta di energia pura. Nel Canto di me stesso Whitman in realtà canta tutti gli uomini del mondo, diventa essenza spirituale capace di trasfondersi come una particella microscopica in ogni luogo, in ogni tempo, in ogni vita. Il lettore può smarrirsi nelle sue parole come in un labirinto di simboli che hanno il solo scopo di elogiare la straordinaria forza vitale.
La prima edizione del suo capolavoro indiscusso, Foglie d’erba (Leaves of Grass, Ndr), Whitman la pubblicò da sé nel 1855 in una tiratura limitata di sole 795 copie. Era un volumetto sottile di appena novanta pagine, privo di indicazioni sui titoli delle poesie e su chi fosse il loro autore. La raccolta si apriva con un poema che solo nel 1881, nella settima edizione, acquisì un titolo definitivo: Song of Myself.
Leggere Whitman significa perdersi per poi ritrovarsi: la sua è una poesia nuova che nasce con lui e muore con lui nonostante i numerosi tentativi di imitazione che vengono intentati ancora oggi. Lo stile del poeta americano è unico, e non riproducibile. Lo dimostra meravigliosamente il celeberrimo Canto di me stesso di cui riportiamo un estratto e alcuni spunti di analisi.
Canto di me stesso di Walt Whitman: testo
Canto me stesso, e celebro me stesso,
E ciò che io suppongo dovete supporlo anche voi
Perché ogni atomo che mi appartiene
appartiene anche a voi.Io ozio, ed esorto la mia anima,
Mi chino e indugio ad osservare un filo d’erba estivo.
La mia lingua, ogni atomo di sangue, fatti da questo
suolo, da questa aria,
Nato qui da genitori nati qui e così i loro padri e così i
padri dei padri,
lo, ora, trentasettenne in perfetta salute, ora
incomincio,
E spero di non cessare che alla morte.
Credi e scuole in sospeso,
Un po’ discosto, sazio di ciò che sono, ma mai dimenticandoli,
Accolgo la natura nel bene e nel male, lascio che essa parli
a caso,
Senza controllo, con l’energia originale.
Canto di me stesso di Walt Whitman: analisi
Abbiamo riportato solo le prime strofe di Canto di me stesso di Walt Whitman. Il poema, pubblicato nel 1855 all’interno della raccolta Foglie d’erba, si compone in totale di 52 strofe in versi liberi.
L’intento finale di Whitman in realtà non è quello di celebrare sé stesso, ma il mondo intero e, soprattutto, l’America. Tramite la rivoluzione formale del verso libero il poeta americano istituisce una sorta di percorso letterario della coscienza che tenta di abbracciare un universale cosmico e comprenderlo in sé.
I versi dell’autore americano sono lunghi, irregolari e senza rima, di lunghezza variabile, densi di anafore e ripetizioni, come a voler suggerire una forma di inarrestabile monologo interiore. La poesia perde ogni struttura, ogni pretesa di forma, si riduce all’essenza del significante, ovvero della parola in sé.
Il “corpo elettrico” decantato dall’Io lirico si fonde in un tutt’uno con la natura: filo d’erba esso stesso in un oceano di fili d’erba che vibrano al moto intangibile del vento. Canto di me stesso a ben vedere è un inno all’uomo o alla vita umana, ma all’esistenza in sé nel suo verificarsi attraverso ogni sembiante umano, animale e persino vegetale. Attraverso la poesia Whitman riproduce il battito dell’esistenza, che vive semplicemente come un respiro ininterrotto al di fuori di noi, ben oltre la ridotta comprensione concessa alle limitate facoltà umane, al di là delle dimensioni di spazio e tempo da noi stessi costruite nel tentativo vano di organizzare il mondo.
Walt Whitman si fa cantore della libertà e della democrazia americana sancendo il legame primigenio dell’uomo con la Wilderness, la natura selvaggia delle vaste lande d’America. Il mito della Wilderness era, del resto, la base fondante dell’identità americana e Whitman se ne appropria - forse inconsapevolmente - affermando il legame inestricabile tra la vastità del paesaggio incontaminato, selvatico e selvaggio, e l’anima dell’uomo.
Il “potente spettacolo che non si arresta”, di cui parlerà nel finale del poema, è dato proprio da questo legame primigenio tra tutti gli esseri e la forza primitiva, originaria, della vita. Il Canto a me stesso di Whitman è incompleto per volontà stessa dell’autore, che vuole che siano i lettori a integrarlo con le loro impressioni e sensazioni, con la loro personalissima ricerca di senso.
Non a caso Whitman dice al lettore che anche lui può contribuire alla poesia con un verso, lo invita a trovarlo. Ancora adesso, a distanza di oltre un secolo dalla prima stesura del poema, chiunque legge può riconoscersi, con una certezza immediata e sconvolgente, in quel “Tu” a cui l’autore si rivolge.
Canto di me stesso di Walt Whitman: commento
Possiamo rintracciare una domanda sottesa tra le righe dello sconfinato poema di Walt Whitman, che ancora oggi ci inebria come vino: “qual è il senso della vita?” Il poeta americano in Canto di me stesso ce lo spiega con una semplicità disarmante, con una semplicità così lieve e candida che commuove:
Che tu sei qui.
Il senso della vita, afferma Whitman, è semplicemente nel fatto di esistere. Il poeta americano ribadisce una verità remota ed essenziale: nessun gesto, nessuna azione, nessun pensiero è senza peso.
Ciascuno di noi, quotidianamente persino senza rendersene conto, contribuisce al vasto disegno della vita: è un piccolo brandello di un affresco molto più grande, sconfinato, che non riusciamo a vedere. All’esistenza l’autore attribuisce una funzione “solenne”, sebbene all’apparenza sia fragile come un sottile filo d’erba che può spezzarsi al minimo soffio di vento.
La bellezza struggente del canto di Whitman è racchiusa proprio qui, nella sua capacità di ricordare che ciascuno di noi può contribuire con un verso e che siamo tutti parte di una grande, invisibile ma potente, energia originale in grado di attraversarci come un’onda trascendente di forza vitale.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Canto di me stesso”: la poesia di Walt Whitman che celebra il senso della vita
Naviga per parole chiave
Approfondimenti su libri... e non solo Poesia Storia della letteratura Walt Whitman
Lascia il tuo commento