Mi chiamo Sara, vuol dire principessa
- Autore: Violetta Bellocchio
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Marsilio
- Anno di pubblicazione: 2017
Sara, la protagonista dell’ultimo romanzo di Violetta Bellocchio – “Mi chiamo Sara, vuol dire principessa” (Marsilio, 2017) – è una ragazzina quindicenne che, malgrado tutte le incertezze e le paure di chi la vita non l’ha ancora veramente affrontata, possiede una forte personalità e una determinazione che le permettono di raggiungere il proprio obiettivo.
La strada verso la vera consapevolezza di sé, però, si presenta come una sfida tormentosa e non priva di insidie.
Sara abita a Settima, una frazione di Gossolengo, a sette chilometri da Piacenza:
“Settima era un paese lungo la statale 45, cresceva tutto a destra, venendo da Piacenza. A Settima c’era una chiesa, c’erano due strade. C’erano i distributori di benzina, i magazzini per la raccolta dei pomodori e delle barbabietole, un negozio di sementi che vendeva all’ingrosso e al dettaglio, un’edicola che vendeva i giornali, le Barbie finte, quelle con la faccia rotonda e gli occhi spenti e le scarpe da Trebbia, le ciabatte di plastica rosse o blu che dovevamo mettere per non scivolare sulle alghe quando andavamo al fiume: shampoo, saponette e schiuma da barba stavano in un armadietto a vetri con la serratura. (…) Non c’erano bar o negozi di dischi. Non c’era mai stato il cinema. A Settima non c’era mai stata una stazione, e non potevo camminare lungo i binari di nessun treno, o sdraiarmi sui binari per poi rotolare via all’ultimo momento. Camminavo lungo la statale, sulla terra battuta accanto all’asfalto. Ogni tanto attraversavo la statale di corsa senza guardare”.
Ha frequentato la terza media, ha dato l’esame e poi basta. Durante l’estate ha lavorato ed ora il suo piano è chiaro:
“Me n’ero andata da Settima il primo ottobre del 1983. Ho aspettato che loro fossero usciti, un giorno in cui mio papà lavorava fino alle sette, mia madre alle cinque. Ho detto che sarei andata in città per vedere se adesso qualcuno mi prendeva in negozio. Loro erano contenti. Avevo metà stagione di mance nascosta dentro il reggiseno, tra il ferretto e la pelle. L’altra metà l’avevo infilata in una bustina tenuta ferma da quattro pezzi di nastro adesivo e dall’elastico degli slip. Diecimila lire per le emergenze le tenevo nella tasca davanti della minigonna. Da giugno a settembre avevo lavorato al distributore di benzina di mio cugino. Lavavo vetri, prendevo la mancia. Ero stata brava e adesso avevo finito, me ne potevo andare. Sul tavolo della cucina ho lasciato un biglietto. Ho scritto, vado a Roma per fare l’attrice di cinema. Vi chiamo io quando mi sono sistemata. Ero pronta, ero bella, Ero terribile, ero speciale. Ero l’acqua del fiume, ero i sassi lungo il fiume. Ero speciale. Ero bella”.
Durante la prima settimana a Milano, Sara dorme nell’unico albergo su via de Amicis dove non le hanno chiesto la carta di identità: una sola stella e gli insetti per terra; una camera con il lavandino e il bagno in comune in fondo al corridoio. Trascorre le mattinate nel bar all’altro lato della strada rispetto al portone della radio dove lavora un suo idolo, in una traversa di via Sempione, dove parecchie ragazzine ciondolano in attesa di qualche celebrità del momento. Lei, invece, aspetta solo Antonio, Tony, il re dei deejay, il re della musica leggera: è alla radio, sulle riviste e in TV presenta i cantanti stranieri ospiti del suo programma:
“Antonio era bello. Aveva la pelle scura, aveva gli occhi blu, grandi, ma li teneva mezzi chiusi, come se la luce fosse sempre troppo forte, o come se tutto gli provocasse un piacere enorme. (…) Antonio aveva trentadue anni. C’era il suo nome sulle riviste, e poi, tra perentesi: 32. Aveva i capelli sempre a posto, tirati indietro, a lasciare libera la faccia, la fronte. Portava la camicia bianca e riusciva sempre a non sembrare un cameriere lo stesso. Io lo guardavo. Io muovevo la bocca seguendo le sue parole. Sapevo tutte le sue frasi”.
Sara ha il coraggio e la sfacciataggine di entrare negli uffici della radio dopo l’arrivo di Antonio, affermando di avere un appuntamento con lui. Dopo tre giorni di caparbia attesa, il breve colloquio si conclude con una promessa:
“Va tutto bene, bimba. Non avere paura. Ci penso io a te”.
Poi le foto, i vestiti, il trasferimento in un palazzo grigio di viale Piave dove abitano cantanti, attrici e personaggi dello spettacolo, la Colonia, e il contratto come artista discografica. Su tutte le pagine c’è scritto: “Sara Monfasani, in arte Roxana, diciotto anni”.
Da questo momento in avanti viene costruita la ragazza, una principessa bianca e intoccabile che canta pop elettronico: ginnastica per mantenersi in forma, studio del playback, uscite nelle discoteche per essere vista. Sara deve solo fare quello che dice Antonio; vestirsi, guardare, sorridere e muoversi come e quando lo dice lui. Così come è lui a pagare le bollette, trattenendo i soldi dai guadagni futuri, mentre a lei va solo qualche lira per le piccole spese.
Il suo primo singolo è una canzone d’amore veloce, che si può ballare, dal titolo Silver, la voce di Roxana è di una corista inglese che ha registrato qualche canzone e ha firmato una liberatoria: in tv, sulle riviste e nei video clip ci sarà sempre la faccia di Sara.
Inizialmente, Antonio si comporta in modo quasi paterno con la ragazzina che, inquieta, vivace ed alla ricerca di un posto nel mondo dello spettacolo, lo coinvolge in modo sempre più diretto, così che il loro rapporto si trasforma in un’irresistibile pulsione sessuale: Sara diventa “la sua donna” e si trasferisce a casa sua; insieme coltivano il sogno di trasferirsi in Brasile grazie ai soldi messi da parte da entrambi.
Con l’arrivo dell’estate, Sara ha la possibilità di partecipare ad una tournée con un’altra cantante, Elettra, e un gruppo, i Magic Rising: Vic, Andre e Damiano. Venti minuti di playback, davanti a un pubblico sempre diverso, in città come Pescara, Modena, Bordighera, Lerici, Frosinone, Grado, Bassano del Grappa…
Nella valigia, tre vestiti d’oro, uguali a quello del video, e una medicina, un ansiolitico, per dormire; al collo un medaglione da non togliere mai, che le avrebbe ricordato Antonio.
Le notti passate insonni a cercare un bar o una spiaggia, dove bere, fumare, conoscersi meglio e conoscere, soprattutto, le proprie e le altrui angosce, da cui difendersi, anche con la droga o con gli psicofarmaci.
Proprio come durante la tournée estiva, dopo il rientro – e con esso, il declino artistico, la scoperta che il Brasile è sempre più lontano e che Tony ha trovato un’altra donna con cui realizzare nuove idee –, Sara percorre le tappe di un itinerario della mente e del corpo che la porta in una dimensione di profonda disperazione e di abbandono. La tristezza le si affonda nel cuore; tra rigurgiti di coscienza, presenze oniriche, visioni allarmanti, si arrende alla solitudine e a una sorta di programma di autodistruzione: un suicidio programmato inconsciamente che si manifesta in una serie di disturbi fisici anche gravi.
Solo un’altra fuga improvvisa e la scoperta di un talento che non aveva ritenuto tale permetteranno alla ragazza di comprendere la vera natura della propria arte e di avere la certezza di poter vivere una seconda vita.
Quello di Valentina Bellocchio è un libro coraggioso, che si ci cimenta con temi delicati e potenzialmente insidiosi: racconta di una vita avvolta da una mancanza affettiva, che approda a un dolore e a un fondo oscuro, da cui, però, si può solo rinascere.
La storia è popolata da personaggi e storie che si incrociano: insieme ai protagonisti, c’è una miriade di figure minori che, nelle loro manie, nelle loro piccolezze e virtù, compongono una trama resa attuale dallo sguardo dell’autrice: andando oltre il tempo e lo spazio descritti, si cala nei loro gesti e nelle loro emozioni.
A livello stilistico, la vicenda si risolve in un linguaggio molto musicale: il ritmo affiora nelle battute e nei dialoghi – che non presentano i consueti segni di interpunzione tipici del discorso diretto –, così come nell’alternanza di parole, di ripetizioni quasi ossessive e di silenzi.
Prima di approdare in una serie di località di provincia e, infine, nell’entroterra ligure, la prima parte del romanzo si svolge dentro il guscio di una città, Milano che, apparentemente è cambiata moltissimo ma che risulta riconoscibile non solo per la toponomastica: una città che accoglie i destini più disparati e disperati e che diventa emblema di una deriva che coinvolge tutto il Paese, tanto simile a quella che molti percepiscono:
“Milano fa tutta schifo. Fanno schifo i locali per ricchi, quelli per i morti di fame, i Navigli, il centro, Quarto Oggiaro, il Duomo. Non importa se ci sono i gerani alle finestre. Non importa se la luce che entra dalla tua finestra è tanto bella, quando ti metti lì a fare i disegnini. (…) Ma non la salvi una città con una luce di taglio e due vasi di fiori. I disegnini non salvano niente. I tuoi, i miei. Siamo arrivati alla fine, lo capisci? Lo vedi? Milano è una discarica. L’Italia è una discarica. Non abbiamo nessun futuro in questo paese”.
Con una colonna sonora che provocherà certamente un moto di nostalgia a chi quegli anni li ha vissuti, il lettore percorre un viaggio nell’Italia degli anni Ottanta, con le sue aspirazioni, le sue ferite, le sue delusioni; in cui la storia individuale si salda con la storia pubblica – una sorta di “com’eravamo” e “come siamo diventati” – che rappresenta lo specchio in cui ritrovare l’immagine di un vuoto inquietante e più che mai attuale.
Sono forse cambiati i modi, i tempi e i mezzi – allora non c’erano i cellulari e internet, ora ci sono facebook, youtube, instagram, e l’ossessiva ricerca di “like”, di “visualizzazioni” e di “followers” –, ma è impossibile non pensare all’effimero mondo in cui, ancora oggi, si muovono individui anonimi, resi celebri e celebrati a livello mondiale grazie a scatti che nulla nascondono ed all’ennesimo video divenuto virale.
Una lettura, questa, forse un po’ pessimistica, ma che viene stemperata nel finale, dove appare evidente come mai, nemmeno nelle situazioni più disperate, vengono a mancare tregue e vie di fuga: è sufficiente credere in una seconda possibilità.
Mi chiamo Sara, vuol dire principessa
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