La compagnia delle anime finte
- Autore: Wanda Marasco
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Neri Pozza
- Anno di pubblicazione: 2017
La tradizione ormai consolidata delle scrittrici napoletane annovera nomi illustri, a partire da Matilde Serao, passando per Anna Maria Ortese, Antonella Cilento, Valeria Parrella, Patrizia Rinaldi, Brunella Schisa, Maria Orsini Natale, Delia Morea e la misteriosa Elena Ferrante; parlo di autrici che ho letto, a cui aggiungo ora Wanda Marasco, il cui romanzo pubblicato da Neri Pozza, “La compagnia delle anime finte”, ha ottenuto la candidatura al Premio Strega 2017.
Libro bello, difficile, inquietante, visionario, scritto in una lingua composita, dove al dialetto stretto dei vichi si giustappone un italiano quotidiano pieno di inflessioni che rimandano ad una società povera, deprivata, piena di superstizioni, di mancanza di morale, di cultura e di prospettive. Anche se siamo nel primo dopoguerra, nel 1947, sembra ancora di sentire descrivere una società arcaica, nella quale la promiscuità, una sessualità sordida e rapace, ambienti familiari feroci, aggressivi, violenti, ci ricordano che la città illuminista, quella della Belle Epoque, la capitale della cultura europea con la sua aristocrazia cosmopolita, si era persa in un luogo di degrado fisico e morale, privo di risorse e di stimoli, condannata ad un eterno medio evo di miseria. La storia che racconta Wanda Marasco, ha la voce di Rosa, che accudisce la madre Vincenzina morente, curata da una badante rumena e, nel momento del trapasso, Rosa ripercorre la vita della donna che le ha dato la vita e che l’ha segnata indelebilmente, identificandosi nel corpo di lei devastato dalla malattia e dalla vecchiaia…
“Sta passando un respiro impaurito tra il suo corpo ed il mio- ti devo dire una cosa”
mormora Rosa, a la donna le risponde dura, “Fa’ ampressa, sto murenno”.
Appena un cenno dei dialoghi, delle conversazioni, dei pensieri che riempiono le pagine di questo romanzo durissimo, drammatico, dove la malattia fisica e mentale, il consumarsi dei corpi, la morte incombente, i fantasmi, gli stupri, il coro greco di prefiche feroci, il non amore, la sessualità negata, la rapacità dei beni, dominano intere pagine trascinandoci in una sorta di inferno sulla terra, quale doveva essere quello vissuto da tanti dei protagonisti che affollano il romanzo che dalle colline di Capodimonte, il luogo magnifico della reggia borbonica, ci accompagna nei vicoli più sordidi del decumano, fino a via Duomo, dove sorge il palazzo in cui abitava Rafele, il marito di Vincenzina che per amore di lei, povera serva, aveva affrontato la terribile madre, Lisa Maiorana, che non aveva voluto accettare le nozze sbagliate del figlio più debole. Rafele infatti non aveva seguito le carriere borghesi del padre medico e dei fratelli, rimanendo un semplice impiegato condannato ad una morte precoce. I suoi figli erano cresciuti con la madre Vincenzina, che era ricorsa ad uno strozzino per pagare le costose cure del marito, e poi anche lei lo era diventata a sua volta, trascinando la figlia Rosa a riscuotere gli interessi dei prestiti, nello squallore dei bassi dove disgraziati loro pari tentavano la difficile sopravvivenza quotidiana.
Ambienti che conosciamo attraverso le commedie eduardiane, ma che qui assumono una intonazione ancora più tragica, senza l’ombra di un possibile riscatto o di un sorriso. Malaffare, prostituzione, omosessualità, usura, tutto è presente contemporaneamente in questo microcosmo malato, dove il presente non sembra meglio di un passato appena trascorso.
Restano indelebili i ritratti del maestro Nunziata, un filosofo saggio e pazzo, del femminiello Mariomaria, divenuto donna ma sepolto con un foto maschile sulla lapide, troppo lo “scuorno” della famiglia, e ancora della zia Moira, che non accetta la corte di un uomo e rimane segregata per tutta la vita nella casa paterna, al buio, a servizio della madre-padrona.
Storie terribili, raccontate nel dialetto/lingua napoletana dei bassi, con una capacità di farci vedere attraverso un linguaggio realistico ma espressivo e talvolta fortemente simbolico una pezzo di società dolente, corrotta, disperata pur se vicinissima alla contemporaneità. Ecco uno squarcio delle giovinezza di Rosa e della sua amica del basso, operaia guantaia:
“In estate andavamo a prendere il sole sul terrazzo. Nude, i vestiti gettati sul suolo di pece, due asciugamani per stenderci, l’olio abbronzante, il mangiadischi. Annarella era piena di ossa aguzze, le trecce le scendevano sulle mammelle come due corde bionde che qualcuno doveva tirare”.
Questa è Napoli negli anni Sessanta, e temo lo sia tuttora.
La compagnia delle anime finte
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