Oggi 25 marzo 2022 si celebra il Dantedì, la Giornata nazionale dedicata al Sommo Poeta Dante Alighieri. Un’occasione per riscoprire l’incommensurabile eredità lasciata da uno dei maggiori autori della letteratura italiana che non è solo patrimonio di accademici e studiosi, ma soprattutto una parte considerevole della nostra identità culturale nazionale.
La Divina Commedia: un’opera popolare
Avete mai riflettuto su come i versi del Sommo Poeta siano entrati di fatto nel linguaggio popolare diventando un fondamento integrante del parlato quotidiano?
A volte potrebbe capitare persino di citare la Divina Commedia senza sapere di star citando l’opera summa della nostra letteratura. Possiamo sentire una frase del poema pronunciata da una delle nostre nonne, oppure da uno sconosciuto nelle situazioni più impensabili. Perché non occorre aver studiato Dante per citare Dante: la grandezza del Sommo Poeta risiede anche nel suo talento nel comporre un’opera popolare fruibile da tutti, comprensibile da chiunque, tanto da divenire parte del linguaggio quotidiano.
È questa la meravigliosa eredità di Dante a oltre 700 anni dalla sua morte: l’aver trasformato un’opera letteraria in un frammento di linguaggio, aver saputo legare in modo inestricabile e profondamente interconnesso letteratura e linguistica.
Le frasi più famose di Dante Alighieri
Scopriamo le frasi più famose di Dante che oggi sono diventate dei modi di dire.
- Nel mezzo del cammin di nostra vita
Lo straordinario incipit della Divina Commedia è certamente uno dei versi più citati della letteratura mondiale. Con questa frase, l’apertura del primo canto dell’Inferno, Dante introduce il lettore all’opera, lo rende immediatamente partecipe: l’uso del termine “nostra” infatti vuole sottolineare che Dante intraprende questo viaggio rappresentando l’intera umanità.
Oggi la frase nel parlato comune viene utilizzata soprattutto come metafora per sottolineare il percorso della vita: “siamo nel mezzo del cammino della vita”, o per intendere la fascia d’età tra i trenta e i quarant’anni, considerata appunto la fase di mezzo tra gioventù e vecchiaia.
- Per me si va ne la città dolente
Siamo nel Canto III dell’Inferno. Dante e Virgilio si trovano nell’Antinferno dove scorre il macabro fiume Acheronte.
Le parole impresse sulla porta ammoniscono i due viandanti ricordando loro che stanno per varcare un luogo di pena e di dolore dal quale non si fa ritorno.
Oggi l’espressione è utilizzata come metafora per indicare l’inizio di un periodo di pene o il dovere di recarsi a un appuntamento sgradito.
- Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate
Gli ultimi versi scolpiti sulla porta d’ingresso dell’Inferno recitano queste parole che suonano come una condanna. Siamo nel Canto III dell’Inferno e Dante e Virgilio si apprestano a varcare la soglia della porta infernale. L’iscrizione li ammonisce ricordando loro che le pene infernali sono eterne, le anime che si accingono a entrare in quel luogo si preparano a vivere punizioni e tormenti senza fine.
Oggi la frase viene usata soprattutto con ironia per indicare una situazione “senza speranza” oppure la fine di ogni speranza e consolazione.
Canto III dell’Inferno. La frase viene ripetuta da Virgilio per ben due volte nel dialogo con il traghettatore infernale Caronte.
Caronte aveva invitato Dante a tornare indietro e a non inoltrarsi nell’esplorazione del regno dei morti, ma Virgilio lo redarguisce con queste parole ammonendolo a non chiedere altro.
La perifrasi "colà dove si puote ciò che si vuole" indica il Paradiso, dove si trovano coloro che hanno comandato il viaggio di Dante.
Il significato è traducibile nell’espressione: "Questa è la volontà di chi detiene il potere, non chiedere altro".
Nel linguaggio comune oggi viene utilizzata per invitare, in maniera elegante, una persona a non insistere e a non fare troppe domande su una determinata questione.
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- Non ragioniam di lor, ma guarda e passa (Attenzione la citazione corretta non è “Non ti curar di loro, ma guarda e passa”)
Si tratta della diciassettesima terzina del Canto III dell’Inferno. La frase è pronunciata da Virgilio per consolare Dante. I due si trovano nel cerchio degli Ignavi, coloro che nella vita non hanno mai preso decisioni o affrontato responsabilità. Lo spirito di Dante disprezza fortemente persone di tal fatta, e il suo disprezzo passa attraverso le parole di Virgilio che lo invita a non lasciarsi prendere dal rancore ma ad andare oltre.
Oggi la frase è spesso citata con la variante errata “Non ti curar di loro” che è entrata nel lessico comune, tuttavia non corrisponde all’originale.
L’espressione viene utilizzata per invitare a non perdere tempo con persone meschine o non degne della nostra considerazione.
- Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
Siamo nel Canto V dell’Inferno e Dante, guidato da Virgilio, ha appena incontrato la coppia di amanti Paolo e Francesca condannati nel cerchio dei Lussuriosi a vagare trasportati da un vento perenne.
Con questo verso Dante vuole sottolineare la potenza dell’amore. “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende”, e cioè “l’amore, che divampa in un attimo nel cuore gentile”, è una forza potentissima, che supera la volontà dell’individuo e vince tutte le resistenze.
Ancora oggi la frase viene citata nel linguaggio comune per descrivere l’amore come una forza inevitabile che tutto travolge e alla quale non è possibile opporsi.
- Amor, ch’a nullo amato amar perdona
Verso citatissimo e spesso riadattato in molte poesie e canzoni contemporanee. L’estratto è parte della celebre terzina del Canto V dell’Inferno che vede protagonista la coppia di amanti più tragica della letteratura, Paolo e Francesca.
Il significato del noto verso è che chi è amato è inevitabilmente condannato ad amare a sua volta. “Amore non perdona”, nel senso che non risparmia a nessuno che sia amato, e che quindi abbia ricevuto amore, di amare di rimando.
Una frase che racchiude la potenza inesorabile dell’amore e che continua a far struggere gli animi romantici.
- Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse
Siamo sempre nel Canto V dell’Inferno, nel cerchio dei lussuriosi. La celebre dichiarazione viene fatta per bocca di Francesca da Rimini che racconta a Dante la storia del suo amore per Paolo.
Francesca narra la passione adultera per Paolo scoppiata all’improvviso mentre leggevano per diletto dell’amore tra Lancillotto e Ginevra. Il bacio adultero dei due personaggi invita i due lettori a imitarlo. Per questa ragione Francesca afferma che «il libro» (il romanzo cavalleresco) è stato il “Galeotto” (era il siniscalco, il servitore della regina, che faceva da intermediario tra quest’ultima e i cavalieri, Ndr) tra lei e Paolo.
Oggi usiamo comunemente la parola “galeotto” per indicare un “intermediario amoroso”.
- Fatti non foste a viver come bruti
La celebre terzina pronunciata da Ulisse nel Canto XXVI dell’Inferno: Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza" è la sintesi del profondo pensiero di Dante, il quale considerava la ricerca e il conseguimento delle virtù e della conoscenza, cioè del sapere trascendente, la vera ragione dell’esistenza umana.
Oggi il verso viene spesso ripetuto come ammonimento per ricordare l’importanza dello studio e della cultura nella vita umana. La terzina è stata citata anche numerosi romanzi novecenteschi, tra cui ricordiamo Se questo è un uomo di Primo Levi in cui l’autore si serviva del verso dantesco per dichiarare battaglia alla disumanità.
- E quindi uscimmo a riveder le stelle
Siamo nel Canto XXXIV dell’Inferno, per la precisione si tratta dell’ultimo verso dell’Inferno.
Dante e Virgilio si sono lasciati alle spalle i gironi infernali, finalmente i due riescono a contemplare il cielo notturno stellato dell’altro emisfero. Le stelle simboleggiano la speranza, da lì è infatti visibile la cupola celeste: la tenebra infernale è ormai lontana. Da questo momento il percorso dei due viandanti proseguirà verso il Purgatorio.
Nel linguaggio comune la frase oggi indica l’inizio di una nuova speranza, la visione di un barlume di luce dopo le tenebre, la fine di un brutto periodo.
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- L’amor che move il sole e l’altre stelle
Siamo in Paradiso, nel XXXIII Canto della Divina Commedia. Dopo una fugace visione di Dio, Dante sente che l’Amore divino sta ormai muovendo anche il suo desiderio e la sua volontà.
In questo verso Dante racchiude il significato dell’intera opera, di Dio, dell’universo, esprimendo l’idea che l’amore sia il meccanismo all’origine del mondo e dell’esistenza stessa.
Oggi la frase viene utilizzata come metafora dell’amore divino per descrivere l’esperienza di comunione totale con la vita e con l’universo.
Conoscevate l’origine di tutte queste espressioni tratte dalla Divina Commedia? Qual è la frase di Dante Alighieri più citata oggi nel linguaggio comune secondo voi?
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Le frasi più famose di Dante, diventate oggi modi di dire
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1965. Domandai alla prof perché dopo un verso comprensivo (amor c’al cor gentil...) Dante avesse collocato i due amanti all’inferno: si era piegato o a veva piegato la volontà divina alla mentalità del tempo? Mi rispose con una occhiataccia tipo: e più non dimandare.
Non ebbi miglior fortuna col prof di religione.