Quello tra Giovanni Pascoli e la fede fu un rapporto controverso, specie negli ultimi anni della vita del poeta. In gioventù Pascoli fu anarchico, probabilmente ateo o agnostico, concepiva Dio come un’entità indifferente alle vicende umane. Le sue poesie giovanili erano intrise di materialismo e scandalizzarono i cattolici dell’epoca.
Si racconta che un’anziana compaesana, letta una sua poesia, si mise a strillare in dialetto: “Bruséla! Bruséla”, bruciatela, lo considerava l’Anti-Cristo.
Giovanni Pascoli e la fede
In realtà nel poeta persisteva una ricerca spirituale inesausta, Pascoli era attratto e al contempo sconvolto dalla percezione dell’ignoto, del mistero. La ricerca della fede era suscitata in lui da questo perenne, conflittuale stato di tensione. Per tutta la vita non fu credente, e neppure cristiano.
Nell’inno dedicato all’assassinio di Umberto I, Al Re Umberto scritta il 29 luglio del 1900, affermava senza tanti giri di parole:
Il Male è più grande di Dio.
Una considerazione potente che sconfessa ogni concezione manichea e pone in discussione le basi della religione cristiana. Eppure Pascoli, al principio del Novecento, si dedicò con dedizione e perizia allo studio della Bibbia. Questa sua analisi delle Sacre Scritture si riflette necessariamente nelle sue opere che appaiono intrise di riferimenti religiosi. Lesse i Vangeli apocrifi e si dedicò alla traduzione della Vita di Gesù di Ernest Renan. Era, in fondo, un poeta alla ricerca della propria divinità perduta. Era a suo modo affascinato dal personaggio di Gesù, Dio fatto uomo, che rese protagonista della propria ricerca letteraria.
Una delle poesie più toccanti di Giovanni Pascoli si intitola proprio Gesù e può anche essere letta come una lirica religiosa da riscoprire durante il periodo pasquale. Il testo è contenuto nella raccolta Piccolo Vangelo, in cui Pascoli immaginava il percorso di Gesù impegnato nella ricerca della propria origine divina. La raccolta sarà pubblicata postuma assieme alle Poesie Varie nel 1912.
Scopriamo testo, analisi e commento della poesia.
Gesù di Giovanni Pascoli: testo
Gesù rivedeva, oltre il Giordano,
campagne sotto il mietitor rimorte,
il suo giorno non molto era lontano.E stettero le donne in sulle porte
delle case, dicendo: “Ave, Profeta!”
Egli pensava al giorno di sua morte.Egli si assise, all’ombra d’una mèta
di grano, e disse: “Se non è chi celi
sotterra il seme, non sarà chi mieta”.Egli parlava di granai ne’ Cieli:
e voi, fanciulli, intorno lui correste
con nelle teste brune aridi steli.Egli stringeva al seno quelle teste
brune; e Cefa parlò: Se costì siedi,
temo per l’inconsutile tua veste.Egli abbracciava i suoi piccoli eredi:
Il figlio Giuda bisbigliò veloce -
d’un ladro, o Rabbi, t’è costì tra ’piedi:
“Barabba ha nome il padre suo, che in croce
morirà.”Ma il Profeta, alzando gli occhi
“No”, mormorò con l’ombra nella voce,
e prese il bimbo sopra i suoi ginocchi.
Gesù di Giovanni Pascoli: analisi
Pascoli in questo componimento colloca il suo Gesù all’interno di un paesaggio agreste, ambientazione tipica della sue poetica.
I primi versi suonano come una profezia: Gesù volge lo sguardo verso i campi freschi di mietitura e pare vedere il presagio della propria fine. I campi morenti assumono quindi una sfumatura più cupa, sembrano quasi essere intrisi del suo sangue poiché in essi il figlio di Dio vede l’immagine della propria morte.
Nella terza strofa Pascoli fa ripetere a Gesù un versetto tratto da un brano del Vangelo di Giovanni, che potrebbe essere parafrasato così: “Un chicco di grano che muore darà molto frutto”. Al predicatore si avvicinano subito correndo dei fanciulli, che portano tra i capelli degli steli raccolti nei campi. Quegli steli sembrano restituire, simbolicamente, l’immagine della corona di spine che Gesù sarà chiamato a indossare.
Il figlio di Dio, presago della fine, abbraccia quei fanciulli innocenti come fossero i suoi “eredi” poiché si faranno portatori del suo messaggio.
Negli ultimi versi della poesia prende corpo il presagio funesto della croce, come se il paesaggio esteriore riflettesse le immagini interiori della mente. Tra i fanciulli innocenti prostrati ai piedi di Gesù vi è infatti anche il figlio di Barabba.
L’apostolo Giuda, il traditore, lo addita al Maestro spiegando che è figlio di un ladro destinato a morire in croce. La sorte di Barabba è data per certa. Nessuno in quel momento sa che, invece, la folla deciderà di graziare il malfattore e mandare a morte l’innocente, il figlio di Dio.
All’affermazione dell’apostolo Gesù replica perentorio: “No”, come per respingerla. E in tutta risposta prende il figlio di Barabba sopra i suoi ginocchi, abbracciandolo. Non rinnega il male né il peccato anzi ad essi reagisce, ancora una volta, compiendo un gesto d’amore.
Pascoli rimarca tuttavia il presagio della crocifissione con un’espressione evocativa “l’ombra nella voce”, una sinestesia che abbina l’oscurità a una caratteristica uditiva. Pare di sentire la voce di Gesù incrinarsi mentre pronuncia quel “No” fermo, che non ammette repliche, come una premozioni di ciò che accadrà. Non sarà Barabba a morire. È l’inizio del suo sacrificio.
Gesù di Giovanni Pascoli: commento
Giovanni Pascoli non descrive la morte di Gesù né la sua passione, concentra tutto in quella scena all’apparenza quieta, rasserenante, in cui Gesù compie atti d’amore mentre su di lui incombe oscuro il presagio terribile della fine.
Dalla Bibbia il grande poeta aveva assimilato il grande potenziale narrativo e la capacità, quasi fiabesca, di raccontare storie dense di morale.
Il Gesù descritto da Pascoli è innanzitutto un uomo che si piega docilmente al proprio destino. Il Gesù pascoliano è travolto da una visione totale, profetica, universale della vita e della morte e persino della vita che va oltre la morte.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Gesù”: la poesia di Pasqua di Giovanni Pascoli
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