Guido Cervo vive e lavora a Bergamo, dove è insegnante di Diritto ed Economia politica. È autore di romanzi di successo, tutti pubblicati da Piemme, tra cui “Il legato romano”, “La legione invincibile”, “Il centurione di Augusto”, “L’onore di Roma” (Premio Selezione Bancarella), la serie “Il Teutone” e “Via dalla trincea”.
Da poco è uscito in libreria “Bandiere rosse, aquile nere” (Piemme, 2016, pp. 708, euro 22,00), nuovo romanzo dell’autore lombardo dal respiro epico, che rievoca attraverso la storia di una famiglia una delle pagine più atroci e mai dimenticate del nostro passato recente: quella della guerra civile che seguì, durante la II Guerra Mondiale, all’armistizio con gli angloamericani dell’8 settembre 1943.
In quel periodo nel nostro Paese, con il re e il governo Badoglio in fuga e l’esercito nazista padrone del territorio dal Brennero alla Linea Gotica, s’impose una scelta radicale, che schierò italiano contro italiano, fratello contro fratello, in nome di opposti ideali. Abbiamo intervistato l’autore.
-* Nelle prime pagine del libro nell’immensa distesa di sabbia africana è chiaramente percepibile l’insufficienza dei mezzi e dei rifornimenti italiani in confronto ai nemici, “la cui strapotenza aveva portato in piena luce l’inconsistenza della retorica bellicista e delle ambizioni del regime”. Ce ne vuole brevemente parlare?
Dopo un breve prologo sulla guerra civile spagnola, le pagine iniziali del romanzo sono incentrate sulle ultime battaglie africane, da El Alamein all’estrema difesa in Tunisia. Alberto, tenente dei bersaglieri, si trova sempre in prima linea, impegnato in disperati combattimenti, che ho descritto tenendo ben presente la corposa memorialistica lasciataci dai protagonisti, che le sintesi storiografiche e la pubblicistica postbellica hanno spesso trascurato, sacrificando la realtà storica a schemi ideologici precostituiti. Mi spiego meglio: l’impreparazione dell’esercito italiano alla vigilia dell’entrata in guerra è ormai ben conosciuta, ed era nota prima di tutto a Mussolini, che non per niente, nel ’39, aveva avvertito Hitler di non essere “pronto” prima di tre anni. Mussolini poi se ne dimenticò nella foga di salire sul carro del vincitore dopo l’imprevista débacle della Francia nel maggio del ’40. Questo elemento è decisivo per spiegare gli insuccessi dalle nostre forze armate durante il conflitto. Tuttavia, non ne deriva automaticamente che i soldati italiani, almeno fino allo sbarco alleato in Sicilia, non si siano battuti al meglio delle loro possibilità, talvolta anche con grande eroismo. Questo, non tanto per fedeltà al regime fascista, quanto piuttosto per altre motivazioni quali lo spirito di corpo, fortissimo in reparti come gli alpini, i carristi, i bersaglieri, o il senso del dovere, o anche soltanto l’orgoglio di non darla vinta al nemico; tutto ciò, malgrado la frequente incapacità dei loro comandanti. Del resto il generale tedesco Rommel, che li ebbe al suo comando in Africa, riconobbe il valore dei nostri soldati, salvo precisare che i generali sarebbero stati “tutti da fucilare”. Questo è stato spesso dimenticato nella pubblicistica postbellica, che ha consegnato la palma dell’eroismo esclusivamente ai partigiani, evidentemente nel timore che riconoscere il valore dei soldati italiani equivalesse ad accreditare l’idea di una loro adesione al Fascismo. Un discorso a parte meriterebbe la partecipazione alle vicende belliche dei reparti della Milizia fascista o, nel periodo di Salò, dei giovani della Decima Mas, sui quali è stata distesa per decenni una cappa di silenzio. Molte pagine del romanzo, pur senza concessioni agiografiche, sono dedicate anche alle loro vicende.
-* Uomini come Ferruccio Martinelli, i suoi figli Alberto ed Eugenio, donne come Ersilia che aspettano il ritorno dei loro cari dalla guerra, vincitori e vinti, eroi e vittime. Nel romanzo “La Storia” Elsa Morante considera la Storia, una sorta di mostro vorace e indifferente che divora la vita delle persone costrette a subirla. Cosa ne pensa?
La Seconda Guerra Mondiale sconvolse la vita di centinaia di milioni di persone. Tuttavia, direi che nessuno dei protagonisti del mio romanzo subisce passivamente le vicende belliche. Ognuno di loro combatte la sua personale battaglia, sulla barricata della propria vita: anche Ersilia, che non vive soltanto nell’attesa del ritorno dei suoi figli o del marito dai diversi fronti di battaglia, ma opera attivamente nell’assistenza ai senzatetto e, benché moglie di un gerarca, non esita ad assumersi dei gravi rischi aiutando a espatriare gli ebrei che sottrae alla Gestapo; e perfino Alberto, il reduce invalido, che cercherà la sua rivalsa arricchendosi con la borsa nera. Tutti soffrono per la loro condizione, e la fedeltà alle proprie scelte comporta per alcuni sacrifici pesantissimi, quando non laceranti crisi di coscienza.
-* Da sempre appassionato di storia, Lei ha già affrontato i temi del Novecento nel precedente romanzo “Via dalla trincea”, incentrato sulla prima guerra mondiale. Che cosa La affascina del “Secolo breve”?
L’intensità delle esperienze vissute dagli esseri umani in presenza di eventi di dimensioni che non è esagerato definire apocalittiche. Già nello scrivere Via dalla trincea (di cui “Bandiere rosse, aquile nere” riprende alcuni personaggi), fui colpito da questo aspetto. Fra l’altro, risulta particolarmente interessante il confronto fra la generazione che dovette affrontare la prima guerra mondiale e quella successiva, cui toccò in sorte la seconda, più grande e peggiore. In entrambi i conflitti furono impegnate grandi masse, ma mentre la generazione del ’14, che aveva ancora la testa nell’Ottocento, era per così dire innocente, inconsapevole del tritacarne che lo sviluppo a livello industriale delle armi moderne aveva predisposto per lei, non lo stesso può dirsi dei giovani degli anni ’40, i quali avevano se non altro alle spalle i drammatici racconti dei loro genitori. Ciò nonostante, sulla spinta di forti passioni, combatterono con un tale accanimento, sotto opposte bandiere, che non risulta possibile estendere a questo conflitto la definizione, corretta per la Grande Guerra, di guerra imperialistica. In effetti, la seconda guerra mondiale è prima di tutto un conflitto ideologico fra uomini accomunati da opposte visioni del mondo. Ciò è particolarmente vero, in Italia, per la fase di Salò. Non si può non rimanere sconcertati di fronte al coraggio e alla determinazione con cui uomini e donne dei due schieramenti contrapposti affrontarono pericoli e compirono azioni che oggi, per noi, risulterebbero semplicemente inimmaginabili. Nel romanzo, le vicende di Anita e Stefano, combattenti comunisti nelle file dei GAP, e quelle di Ferruccio e di suo figlio Eugenio, che si battono sul fronte opposto, sono a questo riguardo emblematiche.
-* Quali fonti ha consultato per la redazione del volume?
Innumerevoli. La preparazione di questo romanzo ha richiesto due anni. La bibliografia su cui si appoggia risulterebbe troppo lunga. In essa trovano spazio, oltre alle opere storiografiche e di sintesi, monografie e analisi specifiche, ma decisivo è stato lo studio della memorialistica lasciataci dai protagonisti impegnati sui vari fronti. Aggiungo che in più punti del romanzo ho inserito testimonianze tramandate in famiglia o da persone di mia conoscenza. L’impegno maggiore, sicuramente, è stato richiesto dalla ricostruzione ambientale e soprattutto dello stile di vita nel periodo bellico. Di continuo si presentavano problemi come questi: quanto costava una tazzina di caffè (ossia di orzo o cicoria)? Quale tram passava per quella tale via in quel periodo? Va anche detto, peraltro, che affrontare dubbi come questi mi ha portato letteralmente dentro l’epoca dei fatti che ho raccontato (reali e immaginari), e credo che questa full immersion abbia contribuito nel conferire attendibilità al risultato narrativo.
-* Per quale motivo nel nostro Paese a distanza di oltre settant’anni non si sono ancora spente le polemiche sul “sangue dei vinti”?
Questo è davvero triste, e anche sconfortante. La santificazione tout court dei partigiani, e l’accento continuamente posto sulla Costituzione come “figlia della Resistenza” non hanno certo contribuito a richiudere il solco sanguinoso che, negli anni di Salò, si allargò tra fascisti repubblicani e partigiani, che si dilaniarono in mezzo a una popolazione la cui principale preoccupazione, a dirla tutta, era superare paure e privazioni e arrivare alla fine del conflitto salvando vita e beni. Il silenzio sulle stragi del primo dopoguerra ha motivazioni politiche. Tuttavia, non condivido l’atteggiamento di coloro che, a destra, risolvono tutto affermando semplicisticamente che, da sempre,
“la Storia la scrivono i vincitori”.
In realtà, ritengo che del Fascismo di Salò vi sia poco da salvare o da riabilitare. Senza allargare troppo il discorso, direi che il solo fatto della deportazione e morte di 7000 ebrei italiani nei campi di sterminio nazisti basta da sé a condannare quell’esperimento, del resto di impronta puramente collaborazionista. Ma se il giudizio storico non può offrire molte sfumature, altra cosa è la valutazione delle scelte personali, che spesso, fra gli aderenti alla RSI, non erano meno motivate e comprensibili, considerati i valori che le ispiravano, di quelle dei loro antagonisti partigiani. Il fatto è che, come emerse già sul finire del ‘45 con la caduta del governo Parri, il movimento partigiano, per quanto forte ed esteso nelle regioni del Centro-Nord (non dobbiamo mai dimenticare che il Meridione non conobbe se non marginalmente il fenomeno della resistenza all’occupazione nazista) non si rivelò in grado di assumere la guida del Paese e fu presto emarginato e addirittura criminalizzato. Nei serrati conflitti politici e di classe del dopoguerra, la bandiera dell’antifascismo fu egemonizzata dai partiti di sinistra che, temendo di essere delegittimati a livello democratico, vi si aggrapparono come a un’ancora di salvezza, forti di una sostanziale egemonia acquisita in ogni campo culturale. Non v’era spazio per l’obiettività e per distaccati giudizi storici. In seguito la generazione sessantottina, cresciuta nel culto della Resistenza, o all’opposto, per i giovani di destra, nell’eredità rancorosa trasmessa dai padri, reduci di Salò, non annoverava certamente fra i suoi meriti quello della serenità di giudizio. Solo da pochi anni, in piena società postindustriale, spenti i più accesi conflitti fra destra e sinistra, ormai quasi indistinguibili e omologate, si è aperta una nuova, importante fase di analisi storica, che finalmente porta in luce eccessi e crimini, non più soltanto del fascismo, ma anche del movimento partigiano, nonché, ma con maggior difficoltà, le ragioni degli uni e degli altri.
-* Pochi giorni fa, il 2 giugno, la Repubblica Italiana ha compiuto settant’anni. Secondo Lei le giovani generazioni conoscono le lotte, i drammi, i tanti lutti che sancirono la nascita della democrazia nel nostro Paese?
Ormai estintasi la “generazione dei nonni”, che avevano vissuto quegli eventi e ne potevano fornire testimonianze dirette, i giovani d’oggi conoscono, nel migliore dei casi, soltanto quel poco che è stato loro insegnato a scuola. D’altro canto, in genere essi rifiutano per istinto gli accenti retorici che spesso accompagnano le celebrazioni rituali. Più in generale, il loro disinteresse non è che una manifestazione del loro disimpegno in campo politico e culturale, figlio, in buona parte, del benessere e dell’assuefazione al consumismo. Penso sia compito degli adulti trasmettere la memoria di quegli avvenimenti decisivi nella storia del Paese, non però lanciando in continuazione retrospettivi anatemi ideologici, bensì sollecitando nei giovani la riflessione etica, sul fondamento di ricostruzioni storiche attendibili, attente agli aspetti umani ancor più che alle dinamiche politiche.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Guido Cervo racconta “Bandiere rosse, aquile nere” in un’intervista
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uno dei migliori libri che abbia mai letto,sulla nostra storia recente,ben scritto e veramente coinvolgente,mi sembrava di assistere ad un films.e non ultimo veramente obbiettivo e non di parte,