Il 10 agosto 1867 Ruggero Pascoli, il padre di Giovanni Pascoli, veniva assassinato lungo la via di ritorno verso casa mentre era a bordo del suo calesse. La cavallina storna che trainava il carro fu l’unica testimone dell’atroce delitto, la sola a vedere gli occhi dell’assassino; ma quel quieto animale non poteva rendere testimonianza. Il corpo di Ruggero rimase esanime sulla vettura che la cavalla ricondusse nella tenuta di Torre San Mauro, riportando così l’uomo morente al nido familiare.
Pascoli, all’epoca, aveva soltanto dodici anni: il trauma della morte del padre fu la ferita primigenia da cui sgorgò, anni dopo, la linfa stessa della sua poesia. Il tema del “nido” spazzato via dalla tragedia ricorre spesso nelle liriche pascoliane, come nella celeberrima X agosto (che reca proprio nel titolo la data della morte del padre, Ndr) in cui si rievoca l’immagine della rondine uccisa, che cade tra gli spini, e non può fare ritorno al nido per nutrire i suoi rondinini condannati a pigolare nel buio sempre più piano. Se in X agosto la morte del padre Ruggero veniva rievocata attraverso il parallelismo - come la rondine uccisa è l’uomo che tornava al suo nido -, nella poesia La cavalla storna il delitto viene invece raccontato a posteriori, dal punto di vista del suo unico testimone: la cavallina dal manto pezzato (detta per l’appunto “storna” per la trama del manto grigio-scuro, che ricorda la livrea del piumaggio degli storni, Ndr) che viene interrogata invano dalla disperata madre del poeta.
I Canti di Castelvecchio di Giovanni Pascoli
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La poesia La cavalla storna, che a lungo è stata ritenuta una delle più celebri di Pascoli, fu scritta nel 1903 ed è contenuta nella raccolta I Canti di Castelvecchio in cui ricorre con frequenza ossessiva il tema della tragedia familiare.
Nei Canti si può cogliere un rimando continuo dal nuovo paesaggio di Castelvecchio a quello antico dell’infanzia in Romagna, come se il poeta volesse istituire un legame ideale tra il nuovo nido e quello spazzato via dalla tragedia che lo rese orfano. I componimenti della raccolta si susseguono infatti secondo un disegno segreto che sembra alludere al succedersi immutabile delle stagioni. Nella natura, Pascoli coglie un rifugio rassicurante che pare consolare - nella ripetizione costante dei cicli stagionali e negli elementi inalterati del paesaggio - l’uomo dall’angoscia insita nell’esistenza.
Nella prefazione ai Canti di Castelvecchio, dedicati dal poeta alla madre, Pascoli scrisse che uomini ignoti, rimasti impuniti, vollero che un uomo innocente e virtuoso morisse e con lui anche la sua famiglia. La morte del padre Ruggero era dunque il tema cardine dell’intera raccolta. In una lettera autografa inviata all’amico Severino Ferrari, Giovanni Pascoli annunciava la pubblicazione dei Canti in questi termini:
Quest’anno per agosto stamperò una specie di narrazione fosca dei guai della mia famiglia. Io non voglio morire senza aver fatto un monumento al mio babbo e alla mia mamma.
La poesia dunque si traduceva in vendetta: Pascoli era tormentato dall’angoscia di lasciare “invendicato il Babbo”, e la ricorrenza funesta del mese di agosto divenne il pretesto per comporre “una sola lugubre poesia”. La scrittura diventa quindi per Pascoli un atto di coraggio. Il poeta sembra liberarsi dalla rete di simbolismi, allusioni e metafore, dando vita a un racconto per immagini che prende la forma metrica e ritmica di una ballata. Pascoli narra una vicenda reale, fatti realmente accaduti, assumendo il ruolo di poeta cantastorie, come un novello Omero che canta il suo moderno poema epico.
La cavalla storna è una lirica composta di trentun versi in endecasillabi sciolti, intrecciati tra loro da rime baciate (schema AA-BB-CC-DD) che concorrono nel dare al componimento il ritmo di una cantilena che ben si presta alla recitazione ad alta voce proprio come una filastrocca.
Scopriamo ora testo, parafrasi e analisi della poesia.
“La cavalla storna” di Giovanni Pascoli: testo
Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.I cavalli normanni alle lor poste
frangean la biada con rumor di croste.Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
nata tra i pini su la salsa spiaggia;che nelle froge avea del mar gli spruzzi
ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.Con su la greppia un gomito, da essa
era mia madre; e le dicea sommessa:"O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto;il primo d’otto tra miei figli e figlie;
e la sua mano non toccò mai briglie.Tu che ti senti ai fianchi l’uragano,
tu dai retta alla sua piccola mano.Tu c’hai nel cuore la marina brulla,
tu dai retta alla sua voce fanciulla".La cavalla volgea la scarna testa
verso mia madre, che dicea più mesta:"O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;lo so, lo so, che tu l’amavi forte!
Con lui c’eri tu sola e la sua morteO nata in selve tra l’ondate e il vento,
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;sentendo lasso nella bocca il morso,
nel cuor veloce tu premesti il corso:adagio seguitasti la tua via,
perché facesse in pace l’agonia...".La scarna lunga testa era daccanto
al dolce viso di mia madre in pianto."O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;oh! due parole egli dové pur dire!
E tu capisci, ma non sai ridire.Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,con negli orecchi l’eco degli scoppi,
seguitasti la via tra gli alti pioppi:lo riportavi tra il morir del sole,
perché udissimo noi le sue parole".Stava attenta la lunga testa fiera.
Mia madre l’abbracciò su la criniera."O cavallina, cavallina storna,
portavi a casa sua chi non ritorna!a me, chi non ritornerà più mai!
Tu fosti buona... Ma parlar non sai!Tu non sai, poverina; altri non osa.
Oh! ma tu devi dirmi una, una cosa!Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise:
esso t’è qui nelle pupille fise.Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa cenno. Dio t’insegni, come".Ora, i cavalli non frangean la biada:
dormian sognando il bianco della strada.La paglia non battean con l’unghie vuote:
dormian sognando il rullo delle ruote.Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome...Sonò alto un nitrito.
“La cavalla storna” di Giovanni Pascoli: parafrasi
Sulla Torre (riferimento alla Torre di San Mauro, Ndr) era già calata la notte.
I pioppi lungo il torrente del Rio Salto erano agitati dal vento e le loro foglie sussurravano piano.
I cavalli normanni stavano fermi ai loro posti, nella stalla, masticavano la biada facendo rumore.
Là in fondo c’era la cavalla, selvaggia, nata fra i pini sulla salata spiaggia; che nella criniera recava ancora gli spruzzi dell’acqua e il rumore del mare nelle orecchie.
Mia madre aveva appoggiato il gomito sulla mangiatoia (greppia, Ndr) e sussurrava nelle orecchie della cavalla:
“O cavallina, cavallina storna (riferimento al manto grigio-scuro, chiazzato, della cavalla, Ndr) che portavi colui che non c’è più (il marito ucciso), tu obbedivi ai suoi gesti e alle sue parole. Egli ha lasciato un figlio piccolo, il primo di otto figli (Giacomo Pascoli, Ndr), che non è mai andato a cavallo. Tu che corri veloce, tu puoi obbedire alla sua piccola mano. Tu che hai nel cuore la vegetazione marina, dai retta alla sua voce bambina.”
La cavalla volse la sua testa magra verso mia madre che diceva sempre più a bassa voce:
“O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non c’è più, io lo so che lo amavi veramente! Con lui in quell’istante fatale c’eri solamente tu, e la morte. Tu che sei nata tra i boschi, le onde, il vento, nel tuo cuore spaventato, sentendo allentato il morso nella bocca, corresti via. Con calma proseguisti per il tuo percorso perché lui morisse in pace.”
La magra lunga testa della cavalla era ora accanto al dolce viso di mia madre che adesso piangeva.
“O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non c’è più. Oh! Due cose egli avrà detto! E tu le hai capite, ma non le puoi dire. Tu con le briglie sciolte tra le zampe e negli occhi il lampo di fuoco dello sparo, con negli orecchi ancora l’eco del colpo, proseguivi per la tua via tra i pioppi: lo riportavi a casa per il tramonto perché noi sentissimo quello che aveva da dire.”
La cavalla ora stava ferma con la testa alzata. Mia madre le abbracciò il collo:
“O cavallina, cavallina storna, riporta colui che non c’è più! Riporta a me, colui che mai più tornerà! Tu sei stata buona, ma non sai parlare! Tu non lo sai fare, poverina; altri che potrebbero non osano parlare. Oh! Ma tu devi dirmi una cosa! Tu l’hai visto l’uomo che ha ucciso mio marito, la sua immagine è ancora nei tuoi occhi. Chi è stato! Ti dico un nome. E tu fammi un cenno. Dio t’insegni a farlo.”
Ora i cavalli nella stalla non mangiavano più, dormivano sognando la strada bianca, il solito tragitto percorso durante la giornata. Non calpestavano la paglia: dormivano sognando il rumore delle ruote. Mia madre alzò un dito nel buio della notte e pronunciò un nome. Come eco a quel grido risuonò un forte nitrito.
“La cavalla storna” di Giovanni Pascoli: analisi e commento
La lirica di Giovanni Pascoli La cavalla storna fa riferimento a una data precisa: il 10 agosto 1967. Quel giorno Ruggero Pascoli si era recato a Cesena per incontrare un certo Petri, incaricato dal principe romano Alessandro Torlonia di nominare l’amministratore della tenuta. Petri sarebbe dovuto arrivare in stazione, ma Ruggero non lo trovò, e sulla strada del
ritorno, lungo la via Emilia, fu colpito da una fucilata di due sicari e morì sul colpo. Il delitto rimase impunito e fu in seguito archiviato dalla magistratura come “commesso da ignoti”.
In seguito al tragico evento la famiglia Pascoli dovette lasciare la casa di Torre San Mauro e trasferirsi nella dimora della famiglia materna. Pochi mesi dopo la morte del marito, distrutta dal dolore, morì anche la madre di Pascoli, Caterina, e poco tempo dopo anche il primogenito Giacomo, nel 1876.
Nella poesia La cavalla storna Pascoli rievoca tutti i suoi morti: il padre Ruggero, barbaramente assassinato, la voce disperata della madre Caterina e il fratello Giacomo ricordato come il primo di otto figli (Giovanni invece era il quartogenito, Ndr).
L’intera lirica è costruita sulla base di un espediente narrativo: il dialogo tra la madre del poeta e la cavallina dal manto pezzato, unica testimone dell’omicidio di Ruggero Pascoli. La poesia è giocata sull’alternarsi di strofe descrittive, in cui un anonimo narratore delinea la scena in cui si svolge l’azione, e il monologo della madre scandito come una cantilena nella ripetizione anaforica del verso “O cavallina, cavallina storna/ che portavi colui che non ritorna”.
Il ripetersi costante del distico crea un climax ascendente, il pathos sembra crescere di strofa in strofa come nell’attesa che la cavalla smascheri il mandante del delitto. Il monologo appassionato della madre vibra di un’emozione crescente che infine sfocia nel gesto fisico dell’abbraccio tra lei e la cavalla. L’animale infatti ha ricondotto il cadavere del padre al suo nido, ormai violato. Emerge dunque la contrapposizione tra la viltà degli uomini - in Paese si conoscevano i mandanti dell’omicidio, ma nessuno parlava “altri non osa” - e il mondo primigenio della natura rappresentato dalla fedeltà della cavallina.
L’animale si fa rappresentazione metaforica del mondo immaginifico, della dimensione interiore del “fanciullino pascoliano”.
Come per un incanto sarà proprio la cavalla selvaggia a rispondere alle domande della madre con un solenne nitrito che rieccheggia nella notte. Proprio lei, la cavallina, l’animale muto che per natura non è dotato di parola, infine sembra assentire al nome del presunto assassino proferito dalla madre del poeta.
La verità sulla morte di Ruggero Pascoli
Giovanni Pascoli scrisse La cavalla storna trentasei anni dopo il tragico delitto, nel 1903. La morte di Ruggero Pascoli rimase un mistero, tuttora insoluto.
Le questura di Forlì all’epoca indicò gli ambienti sovversivi repubblicani come il focolaio del delitto, tuttavia la famiglia Pascoli ha sempre ritenuto che il mandante invece fosse Pietro Cacciaguerra, colui che aspirava a prendere il posto del padre. I giudici assolsero Cacciaguerra all’unanimità, ma al termine del processo Giovanni Pascoli si rifiutò di stringere la mano dell’uomo. Secondo i testimoni il poeta disse:
Non posso, non posso. Credo alla cavallina storna, credo a mia madre!
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “La cavalla storna”: la poesia di Giovanni Pascoli dedicata al padre Ruggero
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