Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira.
Così scriveva J.D. Salinger ne Il giovane Holden.
Pure io, allora poco più che venticinquenne, avevo il desiderio di conoscere lo scrittore che mi aveva lasciato senza fiato dopo aver letto Se questo è un uomo e La tregua, uno dei simboli e uno degli autori più bravi del secondo Novecento.
Non conoscevo il suo numero di telefono, ma sapevo dove poterlo incontrare e come ottenere un appuntamento con Primo Levi.
La prima volta accadde nel primo pomeriggio di una giornata del luglio 1979 sulla spiaggia di Pietra Ligure, cittadina dove io sono nato e dove Levi trascorreva le vacanze con la famiglia. Camminammo sulla battigia e parlammo, ambedue in calzoncini da bagno.
Ebbi la sfrontatezza di donargli un mio poemetto appena pubblicato sul primo e unico numero monografico della rivista “Il Pierrot”.
Levi aveva appena vinto il premio Strega con La chiave a stella e io ero lì a importunarlo sfacciatamente con le mie cose da aspirante scrittore.
La prima lettera che mi inviò Primo Levi
Qualche giorno dopo, il 12 luglio 1979, mi fece recapitare un suo biglietto:
Caro Bova (…) ho letto i suoi testi: sono divertenti, ricchi di suggestioni e mostrano un’immaginazione non pigra e non ripetitiva (…) Vi si colgono letture fruttuose di modelli recenti e lontani, anche molto lontani; sono allegri e tristi (ed è questa, appunto, la condizione umana), ma tutti alacri e liberi. La ringrazio per avermi dato quest’occasione di lettura (…) suo Primo Levi.
Il grande scrittore mi ringraziava e io, ancora oggi, arrossisco felice. Ho avuto la ventura nella mia vita di incontrare e di stabilire relazioni - quelle che ho definito, prendendomi in giro, i miei incontri ravvicinati del terzo tipo – con alcuni protagonisti del Novecento e la lezione che ho imparato è quella dell’umiltà, infatti ognuno di loro mi ha accolto come un figlio, senza l’arroganza che, ahinoi, a volte caratterizza l’intellettuale, l’artista e lo scrittore famoso.
Foto fornita da Francesco Bova
Il mio secondo incontro con Primo Levi
La seconda volta accadde sempre in riva al mare e sempre indossando calzoncini da bagno, tre anni dopo nell’estate del 1982, l’anno in cui vinse il Premio Viareggio con il romanzo Se non ora, quando.
Mi ero messo in testa di intervistarlo, ma la prima domanda - “Se non ora quando?” - mi era rimasta in punta di lingua, zittita dal morso dei denti. Ero emozionato. L’emozione è un rossore interiore, infantile e primitivo, che evoca il mito: avevo nella testa immagini di chiari letterati, di artisti demoniaci e di poeti geniali.
In quel momento, mentre le mie guance arrossivano, avevo la sensazione di tuffarmi nell’acqua cristallina del sogno e di ritrovare la soddisfazione del gioco: l’invenzione, pure la magia e la religiosità. Ma è risaputo come le convenzioni, le buone maniere possano mortificare il mito. Che fare?
Ricordo di avergli stretto la mano e banalmente di avergli domandato:
“Signor Levi, come sta?”
Un esordio infelice. Avevo l’intenzione di fargli un sacco di domande, di intervistare uno dei deportati dell’inferno dantesco di Auschwitz, diventato nel tempo uno scrittore sensibile e ironico, con il dono di una straordinaria capacità di narrazione. Ma non lo feci. Forse era stato il sole, la folla anonima dei bagnanti e il palcoscenico marino, forse era stato un Primo Levi abbronzato e in calzoncini corti a rigettare in me l’idea dell’intervista. Ma senz’altro era stato il pudore e il rispetto.
Non potevo disturbare l’uomo in vacanza con le mie povere domande, già così impegnato dal critico letterario esigente e dal polemico giornalista, per via del premio importante e di un conflitto arabo-israeliano in corso, l’Operazione Pace in Galilea.
Così passeggiammo sulla battigia come due comuni amici, in mezzo alla folla rivierasca pasticciona e ciarliera, anche se io avrei voluto gridare al mondo che quel signore con i piedi lambiti dalle ondine del mare era un eroe della storia del mondo. Avevo in testa tante domande, avrei voluto discorrere di libri, di personaggi, chiedergli qualcosa del suo passato, ma rimasi in silenzio.
Godere della sua vicinanza e della sua delicata presenza era per me qualcosa di indescrivibile, come se fosse stato un amico per la pelle. Ci salutammo e mi allontanai con discrezione. Qualche giorno dopo scrissi un breve articolo su una testata giornalistica locale, avendo cura di farglielo avere.
Il 25 agosto del 1982 Levi mi spedì dalla sua casa di Torino un cartoncino:
“Caro Bova, la ringrazio per la sua nota su L’Orecchio, la ringrazio anche per la sua inibizione. Anch’io ero inibito, ricevere interviste in calzoncini da bagno è quasi impossibile. (…) suo Primo Levi”.
Foto fornita da Francesco Bova
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Le lettere di Primo Levi, un personale ricordo dello scrittore dell’Olocausto
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