Negli anni Quaranta il rapporto lingua-realtà mostra il legame imprescindibile di Pier Paolo Pasolini con la lingua della terra del Friuli, sentita come luogo incontaminato ed estraneo al dinamismo della vita moderna. Nella “Nota” in appendice alla “Meglio gioventù” scriveva che il suo friulano
è un linguaggio senza storia, sradicato dalle abitudini, una specie di Lete, al di là del quale troviamo una pace momentanea in sé assoluta.
Cominciando a comprendere il mondo contadino, si appropria così di una cultura arcaica attraversata dal senso del sacro e dove, fra amore e morte, egli trova sogni di purezza e fantasiose pulsioni adolescenziali.
Nelle opere romane la lingua assumerà il carattere della denuncia sociale fino a diventare ideologia. Difatti Pasolini rileva l’assenza di valori nelle masse popolari, sostituiti dai disvalori imposti dal comportamento piccolo-borghese in cui vede l’inaridimento causato dal monopolio d’un mondo di produzione fondato sul profitto. Il suo discorso gramsciano negli anni Cinquanta ha una coscienza ideologica nettamente divisoria: la borghesia opposta alla classe proletaria.
Negli Sessanta si renderà conto del processo di omologazione, livellatore delle diversità. Il proletariato si assimila, passivamente accettandoli, ai modelli imposti dalla borghesia neocapitalistica, mentre sulla scena irrompe il consumismo visto come una nuova forma di fascismo che rende indistinguibile il popolo dalla borghesia. Ecco entrare nel suo animo il tema del “potere”. Il senso della mutazione antropologica gli è chiaro: sta ad indicare l’assenza identitaria del ceto popolare con il conseguente degrado morale e intellettuale.
La borghesia non ama la vita: la possiede
dice Pasolini nel componimento “Le belle bandiere”. Angosciato dall’inautenticità del vivere, non accetta nulla della realtà, ma, pur rimanendo isolato, non rinuncia ad impegnarsi.
Energici i suoi pensieri di riscatto espressi con la polemica che lo fa parlare di un mondo orrendo, utilizzando varie modalità comunicative: la letteratura e il cinema, la saggistica e gli interventi giornalistici e televisivi. Consapevole della potenza evocativa della parola, esprime in modo sferzante la sua visione del reale, consegnando immagini laceranti e per molti aspetti profetiche. Come testimone contro il suo tempo, si sofferma a più riprese sulla crisi dei valori nei primi anni Sessanta:
“niente / di questo mondo umano che io ami. // Tutto mi dà dolore: questa gente […] il suo brulicare intorno a un benessere / illusorio, come un gregge intorno a poche biade”
(poemetto “La religione del mio tempo” (1957-59), in “La religione del mio tempo” in “Pasolini, Tutte le poesie”, Milano, Mondadori, Meridiani, volume I, 2003).
Costante il suo interrogarsi dinanzi ai fatti più scottanti. Specificamente nella sua poesia, intesa come occasione di difesa e di lotta. Moravia ha osservato che la sua modulazione espressiva è di impegno civile: la dimensione privata lo spingeva a contaminarsi con gli eventi sociali, esprimendo se stesso col bisogno di essere in mezzo agli altri e sollecitarli verso una precisa direzione.
Dopo la raccolta “Poesia in forma di rosa”, che registra il ripiegamento sull’autobiografia, per tre anni non scriverà più. La motivazione del suo lungo silenzio, dice egli stesso, va individuata nel fatto di aver perduto il destinatario /interlocutore, ormai irriconoscibile nella società di massa. E tuttavia, pur non vedendo più con chi dialogare, non crede al recinto estetico della poesia, giacché è l’azione per lui a contare. Dominante la sua esigenza di essere nel mondo che per esempio risulta dai suoi viaggi all’estero. Anche in Brasile. Al ritorno del Festival del Cinema di Mar del Plata in Argentina dove aveva presentato, in compagnia di Maria Callas, il film Medea, Pasolini, nel 1970 decide di compiervi una sosta di breve durata. Vi imperava la dittatura militare ed egli volle rendersi conto dei terribili problemi di quel vastissimo territorio, visitando le città di Recife e di Salvador per poi soffermarsi di più a Rio de Jianeiro.
Del suo itinerario la testimonianza poetica di estremo interesse è il componimento “Gerarchia” del 1971, incluso nella raccolta “Trasumanar e organizzar”, unitamente alle altre due poesie “Comunicato all’Ansa, Recife” e “Il piagnisteo di cui parlava Marx”. La strategia compositiva è tipica della narrazione in versi, animata dalla speranza di poter fare un’esperienza che l’accresca umanamente. La commozione si fa dirompente a contatto con le favelas “come Cafarnao sotto il sole” (“Percorsa dai rigagnoli delle fogne / le baracche una sull’altra / ventimila famiglie”), con la storia di Joaquim, vittima del potere imperialistico intanto che considerava il Brasile come una terra adottiva, abitata da angeli che non si rendono conto di nulla pensando solo a vivere, alla ricerca di una felicità perduta.
Vivi e attuali i suoi pensieri non assoggettati ad alcun patto in nome di una libertà che non riduca la storia allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Ineliminabile la poesia dalla sua quotidianità. Scriveva versi con passione per ritrovare se stesso unitamente agli inquietanti problemi della società, benché ingiustamente e sbrigativamente accusato di avere abbracciato una tradizione antimoderna e conservatrice del passato. Basterebbe la lettura di “Lettere luterane” per rendersi conto dell’aspra e feroce sua critica al dominio dei soprusi:
Il potere, creato in conclusione da noi, ha distrutto ogni cultura precedente, per crearne una propria, fatta di pura produzione e consumo e quindi di falsa felicità. La privazione dei valori vi ha gettato in un vuoto che vi ha fatto perdere l’orientamento, e vi ha umanamente degradati.
Era il tempo degli anni Sessanta-Settanta, da lui definito come “la scomparsa delle lucciole”. È opportuno ora chiedersi quale sia la poesia nella quale Pasolini dava prova di sé. Talora intrapresa con atteggiamento lirico e spesso declamatorio con alcune singolari innovazioni lessicali, inclina verso il versante della prosa, appare discorsiva e argomentativa, diaristica e riflessiva. Da “Poesia in forma di rosa” a “Transumanar e organizzar”, che accoglie componimenti scritti durante la lavorazione di “Medusa” e alcuni versi già pubblicati sulla rivista “Nuovi argomenti”, prevarranno le finalità pragmatiche e prosaiche che danno ai testi modalità non specificamente letterarie.
Il ventaglio delle tematiche è ampio con riferimento ad una sorta di poesia narrativa connotata da note diaristiche e descrittive, da percorsi memorialistici, da discorsi ideologici e da apologhi, in cui spesso il disincanto vanifica ogni sorta di speranza, e da indicatori autobiografici con lievi venature d’ironia come per esempio gli struggenti versi “21 luglio 1962” (da “Poesie mondane” nella raccolta “Poesia in forma di rosa”). Scrive per amore, nonché con sguardo visionario e profetico. Limpido il verso in cui dice di provare pietà per i giovani fascisti mentre al disordine delle passioni oppone la ragione, “violenza” non violenta. Non perdona ad ogni modo i terribili misfatti compiuti sull’umanità ed è consapevole di portare con sé le stimmate della negazione del perdono, senza per questo nutrire un sentimento di odio che porterebbe alla vendetta:
“Passivo come un uccello che vede / tutto, volando, e si porta in cuore / nel volo in cielo la coscienza / che non perdona”.
Una poesia, come si vede, di motivi esistenziali e sociali, fecondo passato letterario da rivivere con lo sguardo all’attualità.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Indizi di verità nella poesia di Pasolini: lingua, denuncia sociale e impegno civile
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