I nomi che diamo alle cose
- Autore: Beatrice Masini
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Bompiani
- Anno di pubblicazione: 2016
Una porzione indefinita delle colline della sponda veneta del lago di Garda è la misura geografica e psicologica dell’ultimo romanzo di Beatrice Masini, giornalista, editor e scrittrice che ha già dato prova di grande talento, non solo nel controllo della prosa e di un linguaggio che incanta, ma anche nella narrazione, condotta con tenace esattezza, e nella ricerca di un ambiente che aleggia costantemente attorno ai suoi personaggi.
Dopo il suo primo romanzo per adulti, “Tentativi di botanica degli affetti”, (Finalista premio Campiello 2013), diverse traduzioni e moltissimi libri per bambini e ragazzi, questa “magia” si è rinnovata ne “I nomi che diamo alle cose” (Bompiani, 2016).
I fatti sono questi: Iride Baldini, una famosa scrittrice per bambini dal carattere difficile – “un mostro” – ha lasciato in eredità la casa cantoniera che il figlio Gregorio avrebbe volentieri tenuto per sé, ad Anna, quarantenne editor e revisore di testi che otto anni prima si era occupata della sua autobiografia:
“l’edificio portineria di Villa Biglia sito in contra Santi Angeli in segno di gratitudine per il lavoro svolto”.
Un gesto inaspettato, giunto in un momento particolare della vita della protagonista – la complicata relazione sentimentale con un uomo sposato, una maternità non realizzata – che diventa l’invito a lasciare, senza perplessità o rimpianti, la città, Milano, per la campagna.
La riscoperta di questo ambiente, insieme ad una rete di relazioni con gli abitanti del luogo, la portano a scavare nel passato e a guardare il futuro con nuove prospettive.
“Due piani più la soffitta, non un tubo o un cavo al suo posto. Un pavimento di brutte mattonelle grigiastre, sotto la finestra un quadrato di piastrelle bianche e un secchiaio in cui sembrava che avessero lavato animali morti. Tracce lungo le pareti, fantasmi di mobili. La scala quasi verticale infilata dentro una botola del soffitto: e sopra, a salirci con mille cautele e un certo rischio, un’altra stanza identica. La sagoma di una testata di letto, quotidiani del ’73 in un angolo. Un’altra scala per finire nel nel sottotetto camminato da topi, e in fondo un fruscio, grumi di piume, un sibilo e qualcosa in fuga...”
Si presenta così la casa che sta al fianco della provinciale e veglia sui passanti, in modo che “non si spingano dove non si deve e non si può” e che diventa per la protagonista luogo in cui scoprire la possibilità di una vita diversa.
La casa, però, ha bisogno di una ristrutturazione e ad occuparsene è l’interessante sessantenne Tiziano: un
“signore di poche parole con una predilezione per gli azzurri e i blu che rimarcano gli occhi brillantissimi dietro i piccoli occhiali nudi, capo di operai e operaio lui stesso”.
Umile, l’unica delle sue quattro sorelle ancora in vita – alle altre tre non era andata meglio in fatto di nomi: Spera, Casta e Fede – affida invece ad Anna il compito di scrivere una lettera al nipote Zeno che vive all’estero e non vede da troppo tempo. Nelle quiete stanze ombrose, la donna mette ordine fra le confidenze e i segreti raccolti grazie alla sua capacità di ascoltare:
“Cosa dovrebbe importarle, poi, di queste persone, alcune morte, altre lontane, alcune appena sfiorate altre mai viste: estranei comunque. La risposta è così semplice, così antica che la sconcerta: sono umani come lei. Occupano un posto con la loro storia. A volte è tanto complicata, sottile e contorta da sembrare inventata: la meraviglia della realtà. E lei, che non si è mai occupata di politica, e un po’ la turba, perché vede in questo distacco un sospetto di leggerezza che non le piace ammettere, pensa che forse il suo impegno è ascoltare. L’ha sempre fatto per mestiere, già prima, quando lavorava al giornale, e lo fa adesso raccogliendo le vite degli altri per ricomporle in un ordine di finzione tenuto insieme dall’unica cosa inoppugnabile, il filo del tempo…”
E’ proprio nei ricordi di Umile e di Gregorio e in quelli che affiorano nei racconti per bambini attribuiti a Celia, la governante, ma scritti da Iride, che prende vita il tema dell’infanzia come luogo segreto del nostro silenzio (etimologicamente infante è colui che non sa parlare) e spazio dove si concentra ciò che l’adulto non riesce più ad articolare: paure, speranze, passioni, intuizioni.
Così, piano piano, vincoli di parentela e di amicizia si allacciano nell’affetto, anche se sono duri a costituirsi quando si tratta di “stranieri”, di qualcuno che viene da fuori, come Dan e Gabi, olandesi, che hanno comprato un sacco di terra, fanno il vino, ma non il doc di quelle parti; o Hamid, lo sceicco, che si rivela diverso da come Anna se l’era immaginato:
“meno rapace, meno scuro, anche se qualcosa del falco nel suo aspetto rimane, o forse è solo l’idea a cui Anna non vuole rinunciare. In realtà non è uno sceicco e non è nemmeno arabo: è un commerciante di tappeti metà francese metà iraniano che lavora molto con l’Arabia Saudita ma al rovescio coprendo i pavimenti di marmo degli sceicchi veri con ettari di lana intrecciata al telaio da artigiani italiani”.
Perché, come le spiega Tiziano:
“Noi siamo gente semplice, Anna. Non ci piacciono troppo le novità. No, non è vero: possiamo accettarle, purché non diventino cambiamenti”.
Particolarmente efficace è anche la contrapposizione città/campagna:
“Milano è una città a taglia unica, va bene per tutti. Sei tu che devi aggiustartela addosso. Se ti sta larga o stretta, se ti esalta o ti mortifica, alla fine dipende solo da te”.
E per Anna la città è ormai vissuta come luogo privato di senso, non più comprensibile:
“Se non ti serve cominci a vederla per quello che è. O forse sei tu a non servirle più, e allora getta la maschera”.
Durante un breve viaggio di lavoro, la donna percepisce mille cose normalmente trascurabili ma bene in vista, che fanno di Milano un posto di matti e disperati: mimi che sanno di sudore, monchi, storpi, zoppi ovunque a mendicare soldi e attenzione, librerie chiuse trasformate in negozi di camicie, barboni e venditori ambulanti, telecamere che ti inseguono ovunque, ragazze che vanno in ufficio vestite da sera, enormi facce deturpate sui manifesti…
Non è un caso che prima della partenza venga salutata da uccelli morti sul selciato: il piccione con l’ala incastrata nel pavé destinato ad una morte lenta, diventa facile metafora della città crudele e distratta che decompone e inghiotte.
Invece,
“nessuno dei piccoli caduti delle strade di campagna – ricci, ratti di varie misure, bisce – le apparirà tanto tristo: là sarà solo il conto naturale presentato dalla selezione naturale”
La campagna, dunque, con il recupero dei ritmi e della naturalità, è il luogo dove ricomporre la propria memoria, intrecciandola alla rielaborazione del dolore.
Quella degli animali è una presenza importante, ricorrente e simbolica: il nido di civette che abita la soffitta; il cane che Anna pensa stia andando a morire – “e poi non è morto” – ma poi morirà;
“le civette così incaute da infilarsi nella canna fumaria per cercare tepore e scivolate di sotto senza più riuscire a risalire, trovate in tempi diversi dietro lo sportello del camino, piccole, grigie, perfette, gli occhi di vetro giallo aperti sullo spavento di una morte incomprensibile”; “il piccolo pipistrello scoperto davanti a casa raggrinzito come una larva, nutrito a gocce di latte col cucchiaino”
sparito e ritrovato più volte, sofferente, lasciato fra i rami del caco e sparito definitivamente; la falena trovata nel vino rimasto non bevuto; le due cavallette – insetti di una bruttezza inequivocabile – agganciate fra loro ed alla grata che difende la finestrina, emblema dell’essere una cosa unica e unita:
“muoversi il meno possibile, stare aggrappati, stare stretti, aspettare, essere insieme”.
Beatrice Masini parla una lingua ricca ed elegante, regolata da immagini inaspettate; la sua scrittura è esatta, espressione della consapevolezza di un equilibrio interno fatto di parole ed emozioni che il lettore sente di capire e di condividere.
Su un impianto stilistico che è frutto di una completa padronanza delle tecniche di scrittura – affinate, immaginiamo, anche attraverso la traduzione e la scrittura per bambini, e proprio per questo semplice e musicale – si innesta una proficua attenzione per il particolare, sensazioni, impressioni, sentimenti, paesaggi, in una stretta corrispondenza fra luoghi e persone.
A volte il panorama sfumato ricorda la poesia di certi acquerelli giapponesi:
“la primavera di marzo annunciata da fiumi e vapori che avviluppano il giorno bianco, come se fossero tutti occupati a bruciare le sterpaglie e gli avanzi dell’inverno”
e la presenza del lago si impone pur nella sua assenza:
“A volte le sembra anche di riconoscere il lago, che è lontano e dunque
impossibile da sentire: eppure è sicura di avvertirlo, quel rumore d’acqua ferma colpita da chiglie, il risucchio gentile attorno alle canne della riva, un palmo di mano che batte e ribatte senza far male”
Prova di quanto sia articolato il materiale narrativo di Beatrice Masini ci viene fornita dall’incipit che si può, non solo idealmente, ricollegare alle parole contenute nelle ultime pagine, secondo un principio di circolarità che impone al lettore di rivedere e di riconsiderare gli elementi della trama, soprattutto i rapporti madre-figlio, sotto una luce diversa.
All’inizio infatti è Gregorio ad affermare durante il funerale:
“Se tutte le persone intelligenti fossero anche buone, il mondo sarebbe un posto migliore”
mentre nel finale è la stessa Iride – i tempi del racconto non sono lineari – a sostenere che:
“Se tutte le persone intelligenti fossero anche buone il mondo sarebbe un posto magnifico”.
Anche i titoli delle varie sezioni in cui è diviso il libro – Fine, inizio; Cose che accadono; Cose che scadono; Cose passate; Cose tornate; Epilogo; Prima – indicano la mancanza di un ordine lineare della narrazione, un apparente “disordine” che si potrebbe interpretare come un’attenzione più che al mondo che ci circonda, allo sguardo che su di esso si posa, ai tanti modi di definirlo secondo punti di vista interni ed esterni.
In breve, a “I nomi che diamo alle cose”.
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Questo nuovo romanzo della Masini, dopo il precedente che mi aveva incantato al punto da credere che non ne avrei letto un altro pari, ha poi saputo tenermi una compagnia deliziosa. L’ ho letto due volte in successione: velocemente la prima nell’ intento di giustapporre in fretta tutte le tesserine di un puzzle ricco d’ attrattiva. L’ autrice infatti, è sapiente, piacevolmente maliziosa e smaliziata nel suggerire situazioni o personaggi quasi sovrapponendoli e obbligando chi legge a farsi funambolo tra i fili della narrazione. In attesa di sciogliere il nodo della vicenda ( questo avviene a poco più di metà libro) ho goduto di una scrittura avvincente, appagante anche solo per il suo fascino formale, ove le parole - mai banali o casuali- sono fortemente allusive. Questo è il bello! Ti attirano e allora ti capita una sorta d’ innamoramento intellettuale. Giunta alla fine del romanzo, l’ ho ripreso dall’ inizio, leggendo piano piano - non più d’ una pagina al giorno - gustandomi ogni frazione e valutandola alla luce "del prima e del dopo" perché ormai ne avevo la chiave. E’ raro che io legga due volte successivamente un romanzo e ciò avviene solo quando esso mi conquista a fondo; per esempio, lo feci con Memorie di Adriano della Yourcenair.
Non so da cosa dipenda la nostra individuale predilezione per un’ opera rispetto ad un’ altra di pari valore: al di là della maestria dell’ autore, della sua fama, del successo ecc. credo che un’ opera piace se c’è sintonia tra chi scrive e chi legge. Credo di esserlo con la Masini: questa è l’ alchimia...
Credo siamo in tanti a sentire questa "alchimia"...
Al prossimo romanzo, con la certezza che saprà rinnovarsi.