La novella di frate Cipolla, narrata da Dioneo, cade a conclusione della sesta giornata, nella quale la comitiva dei dieci giovani in fuga da Firenze ha ragionato
“di chi, con alcuno leggiadro motto tentato, si riscosse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita, pericolo o scorno”.
Frate Cipolla è uno dei personaggi più memorabili del “Decameron”, tanto che Giovanni Boccaccio lo definisce pari a Cicerone e a Quintiliano, maestri indiscussi dell’oratoria e retorica latina.
Frate Cipolla si reca ogni anno a Certaldo per riscuotere le offerte dei fedeli, i quali lo amano molto, soprattutto perché il suo nome evoca la tipicità locale: la cipolla certaldese. Pochi giorni prima della festa di san Lorenzo, in agosto, egli si presenta nel borgo per svolgere il suo ufficio, annunciando inoltre una concessione particolare: mostrerà ai devoti un’importantissima reliquia, cioè una
“delle penne dello agnolo Gabriello”.
Si tratta in realtà di una piuma di pappagallo e due scaltri giovani, i quali sanno che il frate è solito ingannare i fedeli facendo leva sulla loro religiosità per ottenere offerte più ricche, decidono di metterlo in difficoltà. Sostituiscono la penna con dei carboni e, al momento dell’ostensione, frate Cipolla viene colto di sorpresa ma non si lascia intimorire dall’imprevisto, anzi coglie l’occasione per gridare al miracolo: questi sono i carboni con cui fu arrostito san Lorenzo. È stato Dio a permettere che prendesse per errore questo astuccio – identico a quello che custodiva la piuma – per ricordare l’imminente festa del martire e farlo onorare degnamente. Con la prontezza di ingegno e una grande abilità oratoria, il frate si salva dallo “scorno”.
Guccio, il servo di frate Cipolla, ne segue egregiamente l’esempio: anch’egli è un ottimo parlatore. Per accattivarsi le grazie della fantesca Nuta, si profonde in un discorso ricco di espressioni iperboliche e surreali, accompagnate da false promesse. A chi gli chiedesse quali fossero i difetti di Guccio, frate Cipolla rispondeva che ne aveva nove, e li indicava – in un sapiente ordo verborum – con tre terzine di aggettivi, distinte in base ad altrettanti suffissi: -ardo (tardo, sugliardo e bugiardo); -ente (negligente, disubidiente e maldicente); -ato (trascurato, smemorato e scostumato).
Che la novella in questione sia incentrata sull’importanza dell’eloquio, è confermato dal fatto che il discorso di frate Cipolla occupa un terzo dell’intero racconto. Nel fiume in piena della sua orazione, lo scaltro personaggio si serve ampiamente della figura retorica dell’anfibologia, cioè di espressioni contenenti un’ambiguità sintattica o semantica che gli consente di costruire un racconto dal contenuto inconsistente ma dalla forma realistica e avventurosa; lo scopo è quello di irretire gli ingenui e incolti certaldesi, incantati dal profluvio di parole e ignari che esse non hanno alcuna corrispondenza con la realtà. Tutti i luoghi a cui il religioso accenna sono compresi entro le mura di Firenze ma vengono presentati come località esotiche per affascinare la platea, così come le prodigiose reliquie che millanta di possedere, sono solo invenzioni della sua fervida fantasia.
È proprio la critica al traffico di false reliquie messa in atto dalla Chiesa che Giovanni Boccaccio lascia trapelare attraverso la furfantesca simpatia di frate Cipolla.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La novella di frate Cipolla nel “Decameron” di Boccaccio
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