L’attuale compagine di governo ha avviato i lavori relativi a un disegno di cambiamento costituzionale di cui il punto di maggiore rilevanza è l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri (premierato) che, anche in virtù di questa investitura plebiscitaria, avrebbe un ruolo molto superiore a quello attuale, a detrimento della funzione del Presidente della Repubblica.
Qualora il dispositivo non ottenesse in Parlamento la qualificata maggioranza richiesta, i partiti di governo hanno fatto sapere che sottoporranno la questione al vaglio di un referendum.
Secondo l’opposizione questa alternativa potrebbe essere la Waterloo della maggioranza: tale previsione riposa sull’idea che gli italiani non vorranno correre il rischio di una così forte concentrazione di potere su una sola persona, che aumenterebbe molto la probabilità di un ammaraggio verso un totalitarismo. Personalmente, sono convinto del contrario: esiste una certa fascinazione del mito del Capo per cui il rischio di investire plebiscitariamente un Cesare è concreto e un referendum potrebbe approdare a questa conclusione. Stante questa inclinazione, si dovrebbero preservare i contrappesi che la Costituzione, figlia dell’esperienza del Fascismo, pone per impedire un’eccessiva concentrazione di molti poteri su uno stesso soggetto.
Per spiegare perché ho questa opinione, devo prenderla un po’ alla lontana e partire dalla grande letteratura della “Santa Madre Russia” e in particolare dal romanzo I fratelli Karamazov di Dostoevskij.
I fratelli Karamazov: Dostoevskij e il parricidio
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Ne I fratelli Karamazov, Dostoevskij mette in scena prima di Freud, che vi s’inspirò, ma dopo Sofocle, il parricidio.
Tre fratelli più uno naturale, che più diversi non si potrebbe, che incarnano anche le diverse stagioni della vita dell’autore:
- Dimitrij, violento e passionale, ma anche capace di gesti generosi;
- Ivàn, intellettuale, ateo, figlio del nichilismo;
- Alësa, fervido credente acceso dall’amore per il prossimo;
- Smerdjakov, illegittimo ed epilettico, tenuto in una condizione di quasi schiavitù;
- il padre Fedor, ricco, avido e dissoluto.
In questa situazione, le grazie della bellissima usuraia e prostituta Grusenka, fanno da detonatore, suscitando lo scontro tra il padre e Dimitrij.
Fedor viene trovato ucciso e dell’omicidio è accusato Dimitrij; Ivàn scopre però che il colpevole, istigato dalle sue teorie nichiliste, è Smerdjakov, vorrebbe rivelare la verità ai giudici ma le sue responsabilità morali lo bloccano: Dimitrij viene condannato e deportato in Siberia, Smerdjakov si suicida.
Siamo di fronte a uno dei romanzi più densi, più pregni di spunti filosofici, che siano mai stati scritti. La trama è un appiglio per investigare le infinite sfaccettature dell’animo umano, acrobata nel doppio abisso, in equilibrio sulla corda, tra luce e tenebra.
La leggenda del Grande Inquisitore ne I fratelli Karamazov
Tra i numerosi temi morali trattati v’è la questione del libero arbitrio descritta tramite il famoso racconto che Ivan fa ad Alësa: “la leggenda del Grande Inquisitore”.
Il racconto narra del ritorno sulla terra di Cristo nel 1500 a Siviglia, in piena Inquisizione. Il popolo, in seguito ad alcuni miracoli, lo acclama ma soprattutto lo riconosce l’Inquisitore che lo fa arrestare come eretico. Nel buio morale di una fetida prigione, il confronto tra Cristo e l’Inquisitore è un allucinato monologo di quest’ultimo che lo accusa di avere distrutto l’Uomo sotto il giogo del libero arbitrio, un fardello, per l’imperfezione umana, insopportabile da portare. Nella notte senza stelle di Siviglia, illuminata da fiacche torce, sfavilla l’accusa a Cristo:
«Perché sei venuto a disturbarci?».
L’Uomo, sostiene l’Inquisitore, non può fare a meno di un pensiero ultramondano, irrazionale; come avrebbe detto molto dopo Heidegger:
“Ora solo un dio ci può salvare, con la sua presenza o con la sua latitanza.”
Il substrato esistenziale dell’Uomo, neopositivismo o meno, richiede la metafisica.
La lucida follia dell’Inquisitore è basata su questo: la felicità e la libertà sono incompatibili, compito della religione deve essere la soppressione dell’insopportabile libertà. Cristo sarebbe colpevole in quanto ha voluto che l’umanità lo amasse di un amore libero mentre avrebbe potuto trasformare le pietre in pane, alleviare i bisogni elementari, guarire i malati, per avere una massa di schiavi riconoscenti.
Per questa colpa la sentenza è di morte: l’Inquisitore all’alba farà bruciare Cristo come eretico!
I due si guardano negli occhi, Cristo non ha proferito parola:
Il vecchio vorrebbe che dicesse qualcosa, sia pure di amaro, di terribile. Ma Egli tutt’a un tratto si avvicina al vecchio in silenzio e lo bacia piano sulle esangui labbra novantenni. Ed ecco tutta la Sua risposta. Il vecchio sussulta. Gli angoli delle labbra hanno avuto un fremito; egli va verso la porta, la spalanca e Gli dice: “Vattene e non venir piú... non venire mai piú... mai piú!”.
Per Dostoevskij, Cristo - di fronte al terrore metafisico dell’Uomo - risponde tacendo ma con il bacio, il gesto dell’amore.
Il “Grande Inquisitore” è una delle figure più straordinarie della letteratura di ogni tempo; contrariamente ad altri personaggi che hanno rappresentato il Male come polarità metafisica, o concreta, del Bene - come il giudice Holden (Meridiano di sangue di McCarthy), Kurtz (Cuore di tenebra di Conrad) o sempre per rimanere su Dostoevskij, Stavrogin (I Demoni) – l’Inquisitore va oltre le colonne d’Ercole, non raffigura il Male, molto di più: accusa Dio di averlo perseguito tramite suo Figlio!
Tutto vacilla, siamo sul lembo estremo del crinale, un passo e siamo perduti: non solo il Male esiste, non solo è presso il cuore di Dio, ma è un suo obiettivo funzionale all’angoscia dell’Uomo.
Solo l’inferno mentale del genio visionario di Dostoevskij poteva partorire questo “urobòro”.
Felicità o libertà? La questione posta da Dostoevskij
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La questione della relazione tra aspirazione alla felicità e libertà, sollevata magistralmente da Dostoevskij, ha fatto scorrere fiumi di inchiostro: nel 1941, Fromm ne ha tratto un intero volume, Fuga dalla libertà, ispirato proprio alla leggenda del Grande Inquisitore, volto a spiegare ciò che ha spinto l’uomo, dopo la faticosa conquista della libertà, ad adagiarsi nella schiavitù dei totalitarismi del Novecento.
Nell’uomo, il desiderio, di più, il bisogno, di sottomissione, pur non essendo innato, si genererebbe dalla responsabilità che la libertà produce. Questa inclinazione rende il compito della democrazia molto complicato: il fiore più naturale nel giardino delle nostre opzioni politiche non è quello dell’autodeterminazione bensì quello dell’accettazione dei totalitarismi.
Il processo sembra poter essere accelerato dall’immane ingranaggio economico all’interno della quale ognuno è individualmente insignificante. Anche la politica può enfatizzare tale processo fornendo l’illusione di poter scegliere ma facendo decidere tra candidati selezionati dagli apparati dei partiti. La realtà è vista come un labirinto, un processo stocastico, traiettorie casuali che si chiamano guerra, inflazione, disoccupazione: siamo nell’abisso di una realtà incomprensibile.
Di fronte a questo, l’Uomo è terrorizzato, vuole certezze e cerca rifugio nella sottomissione a un Leader, un Capo ordalico che si presume conosca la strada, come è avvenuto durante il fascismo, il nazismo, lo stalinismo.
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La lettura freudiana dei totalitarismi corrobora tale conclusione: in Psicologia delle masse e analisi dell’io (1921), Freud analizza la deriva che degenera una collettività in massa, nella cui figura si individua una forma particolare di legame sociale asservito all’oggetto di fascinazione collettiva. Nello sguardo irresistibile del Capo ritorna l’autorità severa dello sguardo del padre - descritto in Totem e tabù (1913) - che guida l’orda e ne difende i singoli membri dall’avversità dell’esistenza: ha luogo la soppressione della singolarità nel nome di un potere superiore, quello di Cesare.
Il “Premier eletto dal popolo” sarà un nuovo Cesare?
Con questo siamo di nuovo al giorno d’oggi, nei quali il totalitarismo ha cambiato pelle rispetto agli archetipi del Novecento: ha a che fare con la biopolitica, con la globalizzazione, con i mercati finanziari, assume un volto postmoderno - senza fez, camice nere e olio di ricino - una nuova forma asettica fondata sia sul potere dell’identificazione all’Ideale del Capo sia sulla polverizzazione del legame sociale, su una sua nebulizzazione complessiva.
Se le cose stanno così, se vi è una tendenza acquattata nella nostra psiche cancerosa che ci spinge verso il cesarismo, se le condizioni sono quelle richieste da questo habitat, mi pare probabile che un Referendum popolate sul premierato sarebbe nella direzione di una fuga dalla libertà e nella designazione di un Capo che, ma sì!, decida per tutti. Siamo di fronte a una sorta di 18 brumaio 1799, quando Napoleone accentrò nelle sue mani, depauperando il Direttorio, tutto il potere.
Ovviamente perché la suggestione del “Premier eletto dal popolo” si diffonda è necessario formulare una visione più ampia che, almeno apparentemente, prescinda dagli interessi personali di chi la proponga: l’idea deve penetrare tra i rivoli del pensare comune nelle mentite spoglie di un interesse che non sia egoistico, ma proposto in nome di un interesse superiore.
Quindi la letteratura sulla vita, cui secondo Roland Barthes la Vita si confà, descrive l’inclinazione umana a delegare al Capo le grandi opzioni dell’esistenza e pertanto suggerisce di mantenere una serie di contrappesi istituzionali perché tale attitudine non spiani la strada a poteri dispotici.
Uno che di totalitarismi se ne intendeva ebbe a dire:
“Io non ho creato il fascismo, l’ho tratto dall’inconscio degli italiani.”
Benito Mussolini
Dalle nostre parti a fare la dittatura non è tanto il despota quanto la smania degli italiani di trovare un padrone. Sempre quello che se ne intendeva, disse:
“Come si fa a non diventare padroni di un paese di servitori?”
Appunto…
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il progetto di legge sul premierato, visto con gli occhi di un lettore de “I fratelli Karamazov”
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