Guardando al momento in cui è stato pubblicato L’humeur Vagabonde (uscito in Italia per Longanesi con il titolo L’umore vagabondo), Antoine Blondin, allora 33 anni, notò che alla sua età la maggior parte dei suoi contemporanei aveva già pubblicato almeno dieci volumi e avviato una prolifica carriera. Lui ne aveva scritti solo due, fra cui il suo libro di culto L’Europe buissonnière, che in Francia gli fece vincere il Prix des Deux Magots e guadagnare l’amicizia di autori quali Marcel Aymé, Roger Nimier e del filosofo Jean-Paul Sartre.
Blondin era così molto ben disposto ad addormentarsi sugli allori, ma così non è stato e ne sono testimonianza gli altri romanzi usciti poi negli anni successivi. Ma chi è lo scrittore francese Antoine Blondin e perché leggerlo a cento anni dalla nascita? Vediamolo insieme.
Chi è Antoine Blondin?
Brillante romanziere e acuto pensatore, Antoine Blondin (11 aprile 1922 – 6 giugno 1991) gioca al torero con le automobili in corsa, guida in stato di ebbrezza, non resiste all’alcool, scrive tanto combattendo la pigrizia, viene ricercato per evasione fiscale. Per consentire alla pentola di bollire e continuare a scrivere, prestò la sua penna alla stampa diventando giornalista sportivo fra i più brillanti di Francia. Venne rimproverato per i suoi articoli per Rivarol, ma replicò di aver firmato anche pezzi su L’Humanité con la celebre frase
“la sinistra mi crede di destra e la destra mi crede di sinistra".
Anticonformista e a tratti irriverenti, Blondin è interessato ai pagliacci lirici e agli eroi sconfitti, allo sport, il rugby e il ciclismo su tutti. Le sue rubriche per i quotidiani sportivi alimentano la sua leggenda: è autore di numerosi articoli pubblicati in particolare su L’Équipe. Ha seguito per questo giornale 27 edizioni del Tour de France e 7 Giochi Olimpici: quarant’anni di produzione, migliaia di pezzi.
Una scimmia in inverno: per la prima volta in libreria in italiano
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Blondin, viaggiatore senza bagagli della letteratura, ci ha lasciato una raccolta di racconti e cinque romanzi intorno ai quali l’interesse dei cultori della lingua non è mai venuto meno.
Tra questi Un singe en hiver, pubblicato nell’ottobre del 1959, è uscito in Italia da pochi giorni per Settecolori Edizioni con il titolo Una scimmia in inverno (2022, 175 pp, traduzione a cura di Vittorio Viarengo, prefazione di Massimo Raffaeli, postfazione di Stenio Solinas).
Una scimmia in inverno è uno dei suoi romanzi più riusciti, troppo in fretta dimenticato: un elogio alla sbornia, una storia bella di solitudine, di amicizia fra uomini la cui forza si scontra con l’incertezza dell’esistenza. L’ecologia narrativa del testo alterna conflitto a purezza, realismo e pensieri intelligenti, espressioni a doppio senso, una vena ironica entusiasmante che si consuma in tutte le pagine del testo.
Protagonista del libro è Fouquet, un giovane divorziato, che si trasferisce fuori stagione in un piccolo hotel sulla costa della Normandia, per avvicinarsi in incognito a sua figlia in collegio. L’albergo è gestito da Quentin e sua moglie, ormai vecchi. Lui le ha giurato di non bere mai più alcolici, ma lei rimugina temendo ricadute. Il giovane e la coppia creeranno tra loro un oscuro legame familiare fatto di confessioni, sbronze e sentimento. Il giovane non riesce a far pace col bicchiere che lo usura giorno dopo giorno e diventa un diavolo seducente, a cui Quentin resiste sotto l’occhio preoccupato della moglie.
Una scimmia in inverno racconta la storia dell’incontro di questi due esseri umani che trovano difficile vivere in questo mondo pieno di dolore e solitudine. Leggere il romanzo di Blondin significa anche (e non solo) affrontare la vita attraverso la storia di due uomini i cui
«destini diametrali ma concentrici si incontrano in un vecchio albergo che rimane aperto, l’unico anche fuori stagione, e il cui gestore è un uomo di mezza età. Un ex soldato coloniale atticciato e laconico, Albert Quentin, con un passato d’alcolista che da anni ha abiurato, per amore di sua moglie […] l’unico cliente, in arrivo da Parigi, si chiama Gabriel Fouquet ed è un giovane bislacco e di umori mutevoli, insondabili».
I due troveranno conforto durante una serata epica in cui, dopo aver abiurato, il signor Quentin si ubriaca e trascina Fouquet nel suo delirio. L’immagine di quella notte ricorda tanto la straziante sceneggiatura di uno dei film più belli e forse dimenticati di Blake Edwards: “I giorni del vino e delle rose”. Nella pellicola del regista americano Joe Clay (Jack Lemmon) trascina la moglie Kirsten (Lee Ramick) nel vortice dell’alcolismo, sino a quando, un giorno, vede la propria immagine di uomo distrutto riflessa in una vetrina e decide di tentare un ritorno alla normalità. Se nel film il fantasma dell’alcool influenza la scelta registica di concentrarsi sull’autodistruzione dei personaggi, nel romanzo di Blondin emergono la speranza e la consapevolezza del proprio sé. Prendere atto di ciò che si è è un atto di coraggio, interessante elemento narrativo che rende universale un libro la cui lettura offre un’interpretazione delle debolezze e dei demoni di ogni essere umano.
È molto bello quando il testo di un libro restituisce un’immagine realistica del mondo in cui viviamo, ed è altrettanto bello leggere dell’amicizia fraterna, dotata di non pochi picchi di genuina complicità virile fra Fouquet e Quentin. Il romanzo rasenta infatti il sublime non solo per le sue qualità intrinseche, lo stile ironico, squisito, fatto di gustose formule che rotolano in bocca quando lo leggi, ma anche per la trama, i dialoghi profondi ma così divertenti, l’evoluzione psicologica dei due uomini. Centrale nel libro è un aneddoto sulle scimmie in letargo durante l’inverno, motivo che sembra una descrizione appropriata di entrambi i protagonisti: le strade smarrite, l’amicizia fra gli emarginati e l’alcool.
Le principali rappresentazioni letterarie dell’abuso di alcool includono Poema ferroviario di Venedikt Erofeev e Giorni perduti di Charles R. Jackson, ma lo scrittore Antoine Blondin, che fu legato al movimento degli Ussari, impone uno stile di scrittura differente e degno di un equilibrista linguistico.
«Dio sa quanto puoi essere incantevole, ed è questa la cosa più terribile. Perché bevi? Sei infelice? Sarebbe meglio guardare in faccia la realtà prima che sia troppo tardi. Ho bisogno di appoggiarmi su qualcuno che sia solido».
Il romanzo è stato persino trasformato in un film dal titolo Quando torna l’inverno con Jean Gabin e Jean-Paul Belmondo nel 1962, unica pellicola in cui i due attori hanno recitato insieme e di cui figura ancora un bellissimo murales a Villerville (trasformata nel libro in Tigreville), dove sono state girate le scene.
È con le parole di Massimo Raffaeli contenute nella bella prefazione del testo che si comprende molto del filo rosso dello scrittore francese con la sua opera:
«Va immensamente rilevato il fatto che “Un singe en hiver”, edito in Francia nel ’59, è non soltanto il suo romanzo baricentrico ma l’opera che più di ogni dà forma e compiutezza a un’autobiografia traslata. Il titolo, detto da un apologo che lo scrittore cita bel finale del romanzo, si riferisce a qualcosa di spiazzante, a qualcosa che con il suo stesso esserci esercita una turbativa nel proprio spazio-ambiente. Si tratta di una proiezione letteraria dui Blondin in persona e del suo alcolismo dissennato, autodistruttivo,ma nello stesso tempo è quanto i francesi dicono un roman-roman, capace di incrociare il passo ieratico del romanzo picaresco […] con il decorso, viceversa, di un romanzo dell’apprendistato dove entrano in conflitto la realtà e l’utopia, lo slancio giovanile che arde e scaglia l’esistenza ».
La lettura è agevole, come sanno esserlo solo i testi in cui variabilità, ritmo e dono della sintesi vanno di pari passo, offrendo forse più domande che risposte a coloro i quali leggeranno il libro, ma la cui fascinazione sta nel suggerire loro frammenti di un’esistenza lontana ma che un giorno potrebbe essere la propria. Sono molti e belli i passaggi che possono essere sottolineati.
«Orbene, Quentin, non appena vide casa sua, intuì che questa casa riconquistata sarebbe stata la sua prigione. Egli non era uomo da tentare ricatti con Dio; questo liberatore, ammanettato dal suo giuramento, divenne un prigioniero.».
Oppure quando si parla dell’albergo Stella, le case di Tigreville e dei suoi abitanti: uomini e donne passati «dalla rassegnazione alla speranza senza condizione». Chissà quanto c’è di Antoine Blondin nei suoi libri, ma si sa, la letteratura è finzione e la finzione impone un collegamento con gli eventi del mondo intorno a noi. Da decenni gli studiosi s’interrogano su quest’argomento che ci appare attraente e al contempo serissimo, ma la risposta non arriva mai e quando pare arrivare sembra non essere mai definitiva.
L’autore francese è senz’altro stato uno scrittore esistenzialista, che si è interrogato sul significato della letteratura e della vita, sull’irripetibilità e precarietà del nostro essere qui, in un crescendo di apparente cupezza e scoppiettante ironia. Certo è che in una compagnia di bevitori d’acqua a Blondin è assicurato l’inferno.
Ultima foto: copertina prima edizione del libro, uscita nel 1959 per LA TABLE RONDE.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Una scimmia in inverno”: il romanzo di Antoine Blondin in libreria a 100 anni dalla nascita
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