L’umanità non ha mai cessato di interrogare la luna, spettatrice silenziosa e solitaria delle notti più oscure. Il satellite della Terra esercita un fascino particolare e irriducibile sull’uomo che continua ad affidare ad esso segreti, suppliche e preghiere come se si trattasse di una muta divinità.
Così come Giacomo Leopardi, anche il poeta inglese Percy Bysshe Shelley le dedicò nel 1820 un poema intitolato proprio Alla luna (titolo originale: To the Moon), inserito nella raccolta Posthumous Poems.
Scopriamo testo, analisi e commento della poesia.
To the moon di Percy Bysshe Shelley: testo originale inglese
And, like a dying lady lean and pale,
Who totters forth, wrapp’d in a gauzy veil,
Out of her chamber, led by the insane
And feeble wanderings of her fading brain,
The moon arose up in the murky east,
A white and shapeless mass.Art thou pale for weariness
Of climbing heaven and gazing on the earth,
Wandering companionless
Among the stars that have a different birth,
And ever changing, like a joyless eye
That finds no object worth its constancy?
Alla luna di Percy Bysshe Shelley: testo tradotto
E come una signora morente emaciata e pallida,
Che innanzi barcolla, nascosta da un trasparente velo,
Fuori dalla sua camera, guidata dai folli
e flebili deliri del suo cervello snervato,
La luna si levò nel tenebroso est,
Una bianca e informe massa.Sei pallida perché
Sei stanca di scalare il cielo
E fissare la terra
Tu che ti aggiri senza compagnia
Tra le stelle che hanno una differente
Nascita, tu che cambi
Sempre come un occhio senza gioia
Che non trova
Un oggetto degno della sua costanza?
Alla luna di Percy Bysshe Shelley: analisi e commento
Gli antichi greci credevano che la luna fosse una Dea, Selene, innamorata di un mortale di nome Endimione, un giovane pastore dell’Asia Minore. Ogni notte il pastore prima di abbandonarsi al sonno chiamava la luna e le parlava a lungo. La luna si innamorò perdutamente di lui e domandò a Zeus che fosse preservata per sempre la sua giovinezza, per proteggerlo dal mutamento e della morte.
Forse in fondo è proprio questa la preghiera che ogni uomo rivolge alla luna prima di addormentarsi: di sfuggire al dolore, agli affanni, alla vecchiaia e quindi all’angoscia della morte.
Nel poema Alla luna, Shelley immagina invece una luna solitaria. Quella cantata da Shelley è una luna lontana dal mito, una luna umanizzata. Nella sua melodiosa lirica il poeta personifica la luna e immagina soprattutto il dolore della sua solitudine. La luna è infatti pallida, stanca di fissare tutto il tempo la terra senza mai poterla raggiungere.
La lirica di Shelley in questo senso appare come una poesia moderna, distante dalla tradizione e dell’immaginario mitico, che ribalta ogni prospettiva: non è più l’uomo, dolente nella sua condizione mortale, a rivolgersi al sublime astro della notte, ma è la luna stessa a rendere manifesto il proprio dolore. Nella dolce poesia di Shelley la luna non è una Dea magnifica e irraggiungibile, ma una donna che desidera soltanto essere amata. Solo l’acuta sensibilità di un poeta poteva compiere questa metamorfosi: trasformare l’oggetto perfetto e irraggiungibile per eccellenza in un essere che a sua volta ama e si strugge per la pena della propria solitudine. La luna di Shelley riflette un dolore che non ha nulla di divino, ma è totalmente umano.
Secondo i critici questa breve poesia di Percy Bysshe Shelley è una rielaborazione di un sonetto del poeta elisabettiano Sir Philip Sidney (1554-86), che scrisse una celebre poesia rivolta alla luna. Nella sequenza di sonetti Astrophil e Stella, Sidney si rivolge all’argenteo corpo celeste con queste toccanti parole:
Con che passi tristi, o luna, sali i cieli.
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Shelley nella sua ode riprende la visione di Sir Philip Sidney. Anche lui vede nella luminosità argentea della luna un pallore sinistro, quasi malato, ma lo attribuisce a una delusione amorosa. La luna descritta da Shelley soffre la pena della solitudine, è come una signora stanca che si aggira con angoscia per la sua stanza, senza trovare riposo.
La personificazione è attuata sin dal primo verso tramite una similitudine introdotta dall’avverbio “come”. La luna non è una donna bellissima ed eterea, ma una “signora emaciata e pallida” stremata dai deliri della sua mente. Sembra quasi soffrire di insonnia, ma in realtà a sfiancarla è il peso della sua esistenza solitaria: è infatti stanca di fissare sempre la terra senza mai poterla raggiungere.
Dopo l’introduzione descrittiva della prima stanza del poema, Shelley inserisce una seconda stanza in cui indaga più approfonditamente l’angoscia lunare: il pallore della luna è dovuto alla sua solitudine. Da secoli infatti si aggira nel cielo senza compagnia, circondata dalla corte delle stelle - così diverse da lei - che non le sono di alcun conforto. Per queste ragioni la luna cambia continuamente forma e dimensione, e non è mai la stessa per due notti consecutive, poiché cerca qualcuno che la ami fedelmente. I suoi movimenti sono irrequieti proprio come quelli di chiunque cerchi approvazione e affetto. Cresce e decresce in una continua contrazione poiché non trova oggetto d’amore degno della sua costanza.
Le domande che infine il poeta inglese pone alla luna non sono quesiti esistenziali, ma, in continuità con i temi della poesia romantica, riguardano la costanza dell’amore e lo scopo di un amore impossibile. Se Leopardi, nella magnifica lirica Canto notturno di un pastore errante, domandava alla luna il senso del suo esistere:
“Che fai tu luna in ciel? Dimmi che fai, silenziosa luna?”
Percy Bysshe Shelley le domanda il senso della sua solitudine e le chiede quale sia lo scopo dell’amore.
La luna di Leopardi è silenziosa e muta come una divinità impenetrabile, mentre la luna descritta dal poeta inglese è pallida come una donna afflitta da un dolore segreto.
La luna di Shelley si angoscia poiché non riesce a trovare un amore che sia degno della sua fedeltà. In questo sentimento si riflette probabilmente la pena amorosa del poeta, che vede nell’astro celeste una trasfigurazione di sé stesso e del proprio stato d’animo.
La più perfetta umanizzazione della luna è racchiusa nella metafora dell’occhio senza gioia:“ like a joyless eye” un verso melodioso e denso di allitterazioni. Il corpo celeste notturno sembra racchiudere in sé la tristezza del cuore umano, come portasse sulle spalle il peso di un fardello tremendo che sbiadisce, di notte in notte, la sua lucentezza.
Percy Bysshe Shelley nella sua lirica sfrutta un tema convenzionale e persino abusato, l’ode alla luna, ma riesce a trasfigurarlo attraverso la sua acuta sensibilità immaginativa. Anche da questo si vede la grandezza di un poeta: Shelley riesce a dare alla luna molto più di una voce, le dona una personalità autentica e individuale. Dopo aver letto questo delicata poesia per ogni lettore sarà impossibile osservare una notte di luna senza sentirsi pungere il cuore al pensiero della “pallida signora” che chiede soltanto di essere amata.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Alla luna: testo e analisi della poesia di Percy Bysshe Shelley
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