Il trono di Cesare. Il prezzo del potere
- Autore: Harry Sidebottom
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Straniera
- Anno di pubblicazione: 2015
Accade tutto intorno alle none di marzo del 238 d. C., sotto Massimino imperatore, il gigante trace, nato pastore di capre e cresciuto nelle legioni di Roma, fino all’acclamazione dei suoi uomini alla porpora imperiale, in luogo di Alessandro Severo, contro cui si erano rivoltati e che avevano massacrato. Non sono mai giorni facili nell’impero sconfinato, mai pacificato in tutti i suoi angoli. Lo sanno bene i lettori di Harry Sidebottom, docente di storia a Oxford, esperto di storia romana. Sempre apprezzabili i suoi romanzi peplum, come “Il trono di Cesare. Il prezzo del potere”, pubblicato nel 2015 da Newton Compton (pp. 380, copertina rigida euro 12,90, ebook euro 4,99), da poco riedito e secondo titolo della serie avviata nel 2014 con “Il trono di Cesare. Combatti per il potere”.
È il 6 marzo, nell’Urbe il prefetto del pretorio Vitaliano riflette sui pochi anni che gli restano, prima di ritirarsi a godere con moglie e figlie i proventi dell’ultimo grado elevato e buon stipendio, dopo una vita in armi.
Lo preoccupa solo la latente instabilità politica, che si aggiunge alla costante difficoltà di gestire l’ordine pubblico, con appena mille pretoriani a fronteggiare l’inquieta plebe dell’Urbe. Il grosso del pretorio è con l’imperatore, ai confini, a fronteggiare altri instabili, i Sarmati e a Roma non si può contare sui seimila uomini delle coorti urbane, perché Ottaviano fin da quasi tre secoli prima aveva imposto di tenere separati i comandi delle truppe cittadine.
A palazzo imperiale, tre soldati gli si fanno incontro. Recano un ordine da affidargli, ma sguainano le spade e lo uccidono, nell’indifferenza delle sue guardie presenti. Così, dopo decine di anni di guerre in tutte le parti del mondo conosciuto, Vitaliano cade sotto i colpi non dei nemici ma di compagni d’arme. Questi agiscono per conto dei nuovi imperatori, i due Gordiani, con l’incarico di eliminare i proscritti. Fin troppo pochi, rispetto a quanti sarebbe necessario far fuori: fosse per i sicari non resterebbe in vita nemmeno un graduato.
E corrono in giro a sollevare la plebe a Roma, al grido:
“Libertà! Massimino il Trace è morto!”
Sempre nel giorno che precede le none di marzo, in Africa, oltremare, a Cartagine, Gordiano il Vecchio e Gordiano il Giovane ricevono l’omaggio di notabili e popolani. Sono passati nove giorni da quando il minore ha piantato una lama nel collo del procuratore Paolo, ha proclamato suo padre imperatore e, di rimando, ha esteso il titolo a lui. La folla lo aveva acclamato Augusto, con la toga ancora macchiata di sangue.
Genitore e figlio contano di salpare per Roma non appena ricevute buone notizie dagli inviati a spianare la presa del potere. Dalla loro hanno il Senato, tradito con false minacce di guerra. Qualche pensiero lo danno i milites urbani: non voglio lasciare la caserma, hanno strappato i vessilli dei nuovi augusti.
Nello stesso giorno prima delle none di marzo del 238 d.C., nella steppa gelata attraversata dal Danubio, ventiquattromila legionari e ausiliari attendono la battaglia contro un’orda della tribù iazigia. È l’ultima che resta prima di considerare debellati i Sarmati. Il comandante ha arringato le coorti come sempre:
“il dovere è duro, ma la fine dei sacrifici è vicina”.
Quell’uomo è un gigante, un uomo altissimo, ben oltre due metri, forte, sicuro di sé, imbattibile. Lo sanno a loro spese i legionari battuti nelle sfide di lotta greco-romana nelle arene. È l’imperatore Massimino, lo straniero di origini povere, salito sul trono di Augusto per meriti militari.
La battaglia si svolge in piano, nel luogo e nel modo scelti dal condottiero romano, rimasto assediato nell’accampamento fino all’esaurimento dei viveri. A quel punto è uscito nottetempo, per schierarsi contro il nemico.
Mentre sarmati a cavallo e a piedi avanzano nella neve al ritmo dei tamburi, turme di cavalleria ausiliaria africana e asiatica li affrontano per scagliare frecce. Poi ripiegano confusamente verso le coorti romane, che si richiudono a formare la classica linea su otto file, con un movimento collettivo che tradisce la tensione. Partono dalle retrovie i dardi delle baliste. Vengono lanciati anche i giavellotti. Gli iazigi sono colpiti, ma i cavalli sembrano inarrestabili, aprono varchi. “Resistete pueri”, resistete! grida Massimino. L’imperatore stesso è costretto ad affrontare i nemici.
Uno scontro feroce. Pochi minuti di violenza reciproca. Poi, solo la mattanza dei vinti.
L’imperatore non prova gioia, solo dolore e uno stanco sollievo. Tutto ha funzionato come studiato. Il temporeggiare aveva reso i barbari troppo sicuri. Il lungo approccio e la neve fresca avevano fiaccato i loro cavalli. Le legioni non erano affatto la marmaglia demoralizzata che facevano credere di essere.
Massimino ha vinto un’altra battaglia, con lui il figlio, Vero Massimo, un giovane violento, imbelle, di tutt’altra stoffa rispetto al padre.
Il Trace è vivo, ora può dedicarsi alla sfida mortale con i Gordiani.
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