Una volpe a mani nude
- Autore: Emmanuelle Pagano
- Genere: Raccolte di racconti
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: L’orma editore
- Anno di pubblicazione: 2022
C’è un uomo che attende sul ciglio della strada, a un incrocio, fermo immobile in un angolo cieco. Le automobili che sfrecciano sui tornanti di montagna giungono fino a quel punto e quando lo scorgono all’improvviso frenano bruscamente; ma chi conosce quella strada si è ormai abituato alla sua presenza, come a quella di un palo o di una recinzione, di un oggetto che ormai è lì e non potrebbe essere altrimenti. L’uomo aspetta tutto il tempo, attende un ritorno impossibile: la sua famiglia morì in un incidente su quella strada e, attendendo in quel punto preciso, ogni giorno alla stessa ora, spera di ritrovarla.
Il suo posto era un rito di fine giornata. Era aspettare. Il suo posto era un momento. Aspettare a vita con la schiena addossata al guardrail.
È quest’uomo lo snodo narrativo cruciale di Una volpe a mani nude (L’orma editore, 2022), la raccolta di racconti dell’autrice francese Emmanuelle Pagano, vincitrice del Premio Unione Europea per la Letteratura e finalista all’International Booker Prize 2020.
Tutte le storie del libro sono collegate tra loro da fili invisibili e, alla fine, si ricongiungono a lui – all’uomo che attende sul ciglio della strada – perché le unisce un unico imperativo morale: vedere ciò che sta ai margini.
Pagano pratica proprio questo esercizio di dilatazione dello sguardo, raccontandoci storie minime, piccoli avvenimenti quotidiani, brandelli d’esistenza o momenti di trascurabile infelicità, sino a sollevare una sinfonia di voci che risuona in un tutt’uno come un’orchestra perfetta. I personaggi appaiono come tanti tasselli di un unico grande puzzle che l’autrice sposta a proprio piacimento incastrandoli tra loro sino a formare un ingranaggio funzionale in cui l’uno muove l’altro, l’uno sposta l’altro un poco più avanti o un poco più indietro, facendo così risuonare il melodioso carillon della narrazione. Sicché nessuno è il vero protagonista della propria storia, non sino alla fine almeno: subentra sempre qualcun altro, all’improvviso, creando nel lettore una sensazione di sviamento, una perdita di equilibrio che tutto sommato si rivela piacevole perché riconduce alla storia precedente, o a quella prima ancora, rievocando un mondo che sembra esistere davvero al di là delle pagine. Ciascuna delle trentaquattro storie infine appare come il capitolo di un unico romanzo dalla struttura circolare in cui tematiche, voci, ambientazioni si intrecciano e richiamano a vicenda in una continua eco.
A dare il titolo alla raccolta è il mito di una bambina che si dice abbia soffocato una volpe a mani nude. La piccola viene immediatamente mandata da uno psicologo e la ragione del brutale gesto viene imputata alla separazione dei genitori; ciò che la gente non sa, non vede, è che in realtà lo strangolamento è avvenuto a fin di bene, per non far più soffrire la povera volpe moribonda. È stata una morte dolce, che intendeva donare sollievo all’animale. Ciò che la gente non sa, non vede, ce lo spiega la bambina stessa che si rivela più matura degli adulti e molto più forte e salda delle loro paure. Infine è lei stessa a psicanalizzare lo psicologo che, in teoria, dovrebbe aiutarla a superare il trauma.
Da bambina dovevo vedere uno psicologo perché avevo ucciso una volpe a mani nude. (…) Agonizzava, io non ho fatto altro che premerle forte sulla nuca, in lacrime, per farla finita più in fretta. Per allentare il calappio di singhiozzi che mi strangolava.
Uno dei racconti più evocativi della raccolta, un autentico gioiello narrativo, è Le lingue materne. Pagano scrivendo queste pagine straordinarie dilata la dimensione temporale rendendola reversibile: non esiste più un confine tra passato e futuro, non esiste più un presente. Esiste solo una nonna che intesse un dialogo con la nipote al di là del tempo e dello spazio. La donna anziana appare come un narratore onnisciente che già conosce e prevede ogni cosa: si muove in bilico tra ricordi e previsioni, tra il tempo retrogrado e quello del progresso, parlando una lingua diversa dalla sua lingua madre che è invece un dialetto fatto di “isolamento, di geloni e di ignoranza”.
A unire le due donne attraverso il passato e il futuro è il momento del parto, una nascita che in realtà non si compie e si tramuta in morte. È questo comune dolore a tenerle unite: il dolore del grembo che non conosce tempo né parole esatte per essere definito. La sofferenza unisce le due donne come un ponte che entrambe possono percorrere avanti indietro a proprio piacimento. La nonna immagina la nipote che ancora non ha conosciuto, mentre la nipote ricorda la nonna per farsi forza nell’affrontare l’ignoto. Ed è in realtà proprio la nipote, che legge tanto e scrive, a dare voce alla nonna, a colei che non ha avuto la possibilità di esprimere il vuoto e la paura provati in quel momento di tanti anni prima. La scrittura colma questa lacuna comunicativa e sembra riempire un silenzio lacerante che attraversa le epoche insieme ai fantasmi delle donne che partorirono nel sangue con dolore.
Mia nipote avrà i miei ricordi come io ho il suo avvenire per darsi forza.
Sullo sfondo delle varie storie emerge la natura nella sua sembianza più selvaggia e desolata, cui si affianca una “periferia dell’esistenza” che Emmanuelle Pagano cerca di raffigurare in pochi tratti che ce ne restituiscono intatto il senso di abbandono. C’è un vecchio castello diroccato che custodisce il ricordo di un’infanzia perduta. Ci sono zone industriali, autostrade, parcheggi vuoti, sentieri e boschi innevati in cui perdersi. I paesaggi descritti non sono mai piacevoli da abitare, così come non è confortevole la vita di coloro che li abitano. Eppure persino nei luoghi più inospitali la natura sembra prendere il sopravvento e possedere le risposte che invece sfuggono all’essere umano.
In queste cornici narrative si muovono donne che amano i libri e uomini che le amano troppo poco; una bambina che abita in una casa-albero; una donna che chiede al guaritore di poter riavere indietro la propria gamba malata, perché da quando non zoppica non è più lei. Su tutto si agita un’ombra, invisibile ma costante, che ci ricorda che la vita non può mai essere vista da una sola prospettiva, che noi non siamo ciò che credono gli altri e spesso è proprio lo sguardo altrui a determinare una diversità che non esiste. È questa la rivendicazione sommessa di tutti i personaggi che si riflettono l’uno nell’altro in un intricato gioco di specchi in cui ciascuno afferma la propria verità.
Ora so che tutta la mia vita viene da lì e che raddrizzarmi, avere la pelle liscia, non zoppicare più, non soffrire più, significa dimenticare, dimenticare la mia infanzia, dimenticare tutto quello che mi ha fatto crescere.
Il tessuto narrativo è saldamente unito da una lingua materica che si fa tangibile, perché Emmanuelle Pagano riesce a dare corpo alle parole che scrive, le fa vibrare una ad una come sassi che rimbalzano una volta lanciati a pelo d’acqua. La vibrazione prodotta continua ancora, dilata la mente e la conduce fuori rotta, verso i margini della strada, verso gli angoli morti, perché è lì che bisogna guardare per fuoriuscire dalla nostra visione limitata dalle convenzioni sociali, dalla patina superficiale del quotidiano che è come polvere posata sugli oggetti, dalle apparenze che riducono il nostro punto di vista.
In Una volpe a mani nude risuona una cacofonia di voci, un tumulto di vite sconnesse, deviate, alla deriva, in cerca di un senso, che solo nella coralità trova un accordo. Eppure di tutte quelle voci voltando l’ultima pagina rimane una coscienza sola: la nostra.
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