Uno spettro si aggira per l’Europa, anzi nel mondo, il virus causa della Covid-19, che sta inevitabilmente diventando terreno di pensiero per scrittori e poeti. In questo periodo l’attore Enrico Montesano sta donando se stesso, la sua recitazione magistrale e istrionica su YouTube e canali televisivi indipendenti, leggendo testi di scrittori e filosofi sempre attinenti, in qualche modo, alla realtà pandemica, che fanno pensare.
Mi è arrivato un libro di poesie dello stesso tenore, firmato da un insegnante di Brescia, Raffaele Castelli Cornacchia, scrittore per adulti e bambini, commediografo. Si intitola La zona rossa (Transeuropa edizioni, pp. 59, 2020), con riferimento a una delle zone più devastate dal Covid.
L’autore è stato un positivo sintomatico colpito dal virus, preso con molta probabilità in ospedale, dove si recava per assistere la madre. È guarito restando a casa, potendo fronteggiare la situazione. Dunque per sua fortuna non è stato intubato. Nel suo preambolo egli scrive:
"I nostri cervelli e i nostri sistemi immunitari fanno il loro lavoro. […] Giorni nei quali ho fatto con i miei versi quello che ho fatto con il mio corpo: ascoltando poco quello che si diceva, e molto quello che sentivo."
La zona rossa di Raffaele Castelli Cornacchia
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Esce dal volume un ritratto solitario ed eroico. Rappresenta tutti coloro che, coraggiosamente, sanno ergersi contro il destino, secondo i dettami della tragedia greca, dove l’eroe affronta eventi e prove che temprano la sua individualità. Tanto accade anche al poeta che torna, vivo, dalla sua catabasi, la discesa negli inferi, dalla lotta con il morbo. Ma si tratta, come vedremo, anche di inferi di natura psichica non certo soltanto fisica. Il suo sguardo è lucido, privo di pregiudizi, la sua anima è stata forgiata nel fuoco metaforico. È un resuscitato. Racconta in poesia il dramma "da dentro" a noi spettatori. Possiamo comprenderlo con l’empatia suscitata dall’arte. Tramite questa voce, forse unica dunque molto preziosa, scendiamo nel profondo, affinché si compia una catarsi necessaria al possibile nostro rinnovamento.
Il suo stile è asciutto e antilirico, se per lirica in senso negativo si intende l’annacquare verità con una fuga meramente sentimentale. Spesso Castelli Cornacchia diventa ruvido e graffiante, scrive versi “al vetriolo” come afferma, vuole colpire per risvegliare.
La prima temperatura emotiva e stato esistenziale dei versi è l’estrema solitudine. Egli non vuole dirla, ma si tratta di un gioco retorico: sicuramente la dice, e in modo estremamente efficace; intende far comprendere che chi non prova, veramente, non sa:
“Inghiotti l’onda e la custodisci / forte dell’assenza cui appartieni / e del silenzio a festa, che mostri. / Questo non dirò di te, e di noi.”
Nel suo silenzio abissale il poeta recluso e malato legge il mondo delle abitudini consuete, superficiali; mondo che appare nudo, falso, quasi una latrina:
"Raccogli lo sterco che ti circonda / senza che dicano hai scritto bene / senza ironie sulla metrica / senza il contagio delle abitudini"
Denuncia le menzogne delle ideologie e delle religioni fintamente sbandierate:
“Una firma / sul cinismo tragico del finire / di un’epoca lenta e magica / fatta di rivoluzioni bugiarde / di sfrenato Io detto a noi / sordo ai padri, muto alle madri / così classici e tradizionali / entrambi troppo cristiani di dio / eppur privi di sguardo sul creato / per quel poco che basta a vedere / ciò che senza tempo, è tramandare.”
C’è la coscienza di una disfatta epocale, la solitudine del singolo ridotto a burattino, manichino quasi come viene visto l’uomo disumanizzato nelle piazze deserte di de Chirico.
Oltre:
“Se muoio oggi crepate pure voi / nel nostro esistere provvisori / ci calcano nella buca assieme / estranei, amici e fratelli.”
È una riflessione sul “memento mori”, ma a migliaia di morti con il Covid è stato negato un funerale dignitoso, cremati frettolosamente senza autopsie. Si leggono ancora parole vere e dure come pietra:
“Così, rappresentati degnamente, / da giullari servi e mascherine / crepammo, dimentichi dei mandanti.”
Una poesia bellissima è dedicata alla madre, trapassata, a un loro momento di gioia all’osteria. E ritornare in quel luogo, che diventa una vera chiesa, porta luce nel cuore.
Abbiamo il recupero del vitalismo, voler assestare pugni e riqualificare il corpo da amare, un valore da conservare.
"Le radici che vogliamo mettere / son delle lunghe gambe da amare / un corpo sudato è corpo vivo"
C’è la fatica della lotta, la necessità di riconquistare il respiro, il suo ritmo, con energia mentale e con rabbia:
"Annusa l’aria, inventa le stelle / prova compassione per ogni zolla / e rabbia, tutta quella che non scappa / come non sfugge l’insetto pestato. / Sorveglia il battito. Ritma giusto.”
Respiro che è soffio, Ruah, Pneuma, la vita non rubata, non alienabile.
Ecco il recupero della natura, più vicina delle persone, più “umana”, affine all’energia indistruttibile, e questo sì è assolutamente sentimento lirico:
"Vermiglia città o ocra campagna / indaco mare o seppia montagna / amaranto lago, o malva fiume."
È la passione di un uomo vivo, autentico. È un libro espressionista, severo e acceso, testimonianza di chi è tornato. Come Ulisse dall’Ade. Come Orfeo, pur solo, per cantare l’infinita supremazia della poesia, superiore alle maschere indossate senza pudore da una società che si imbastardisce sempre più, schiava del potere.
Restano le parole per dire, e sono paragonate a tigri, ma pure a “collane di labbra”:
“Così in quei giorni tutti i respiri si riunivano / in collane di labbra che sono diventate parole / pudiche sincerità, poesie, e cambiamento.”
Possiamo dire di Castelli Cornacchia: egli vive. E noi? Siamo forse vivi? Sappiamo cambiare, morire e rinascere spiritualmente, come la fenice? Chiediamocelo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “La zona rossa” nel libro di poesie di Raffaele Castelli Cornacchia
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