Solo a sentire accennare alla ritirata di Russia del 1942-43 tutti gli italiani dai sessant’anni in su provano un brivido, tornando con la memoria al dolore di tante famiglie. Giulio Bedeschi (1915-1990), sottotenente medico della Divisione alpina Julia in Grecia e Russia nella seconda guerra mondiale, riuscì a tornare in Italia dopo patimenti disumani e come altri reduci avvertì il bisogno di raccontare la sua esperienza, per elaborarla e per mettere tutti a conoscenza delle sofferenze patite da tanti giovani connazionali. Scrisse fino al 1946, terminò nel 1948, rivide e completò nel 1951, ma nessun editore accettò di pubblicare il romanzo autobiografico. Aderì Mursia, nel 1963, e il successo fu immediato: Centomila gavette di ghiaccio vinse l’anno dopo il Premio Bancarella ed è stato riedito più volte: la più recente e integrale a fine 2020 (430 pagine, 20 euro), sempre per i tipi della casa editrice milanese. Nel 1967 ebbe un seguito, Il peso dello zaino”.
Per decenni, dopo la guerra, è stato insopportabile il tormento di tante donne soprattutto, che piangevano un caduto o “aspettavano” un figlio, un marito, un fratello, di cui non avevano notizie. Quasi 100mila morti in terra russa dei 230mila militari in grigio verde (uniforme di lana autarchica e scarponi di cartone pressato), ma ben 84mila risultavano “dispersi”, non se ne sapeva più niente. Molti anni dopo, fino al 1954, tornarono solo 10mila prigionieri italiani finiti nei campi di concentramento disseminati fino alla lontanissima Siberia, in un clima estremo, ancora più inclemente della steppa del Don dove fanti e alpini avevano operato durante le operazioni militari. Dalla Val d’Aosta alle isole, ogni famiglia piangeva un caro perduto, scomparso, mai tornato dalla tremenda campagna di Russia, nel vuoto disperante di notizie.
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Nella memoria, sviluppata come un romanzo, dietro il nome del sottotenente Italo Serri, l’ufficiale medico raccoglie anche le fasi che lo avevano visto nei reparti di fanteria sul fronte greco-albanese. Altra avventura bellica dolorosa, quella, che avrebbe dovuto mettere le autorità fasciste in allarme sulla leggerezza con cui mandavano allo sbaraglio migliaia di uomini, senza preparazione e mezzi adeguati, non tanto per conseguire obiettivi militari fuori portata delle proprie scarse forze, ma per un azzardo politico o per scopi di propaganda e rivalità tra le offensive dell’Asse. Mussolini era roso dall’invidia per lo strapotere dell’alleato tedesco.
Centinaia di chilometri di ritirata a piedi nell’inverno russo, per due colonne di migliaia di uomini ciascuna, senza viveri e risorse nella steppa, con i sovietici che ogni tanto colpiscono, con la temperatura notturna che precipita a decine di gradi sottozero. Per tutti, calato il buio, non trovare dove riposare al coperto in un’isba significa la morte. È l’elaborazione di un vissuto più che drammatico, di visioni, pensieri, incubi. Racconta di “pianure ghiacciate... sterminati biancori... cieli imbottiti di cenere... essere soli... sperduti nella vastità senza misura...”. Ricorrono paesi che mai avremmo sentito nominare: Ivanowka, Golubaja Krinita, Novo Kalitwa, Ivonka, Nikitovka. Si avverte l’ansimare dell’uomo solo di fronte ad una tragedia che condivide con migliaia di compagni.
“Se mi congelo sono finito... ho le scarpe piene di neve, una suola di ghiaccio fra la calza e il cuoio... mamma, non ho più forza per camminare”.
In dieci della sua batteria di artiglieria alpina hanno nel complesso tredici pallottole, “sono circondato, ma da vivo non mi prendono”. Camminano in fondo a una sacca, col timore costante che un carro armato con la stella rossa sulla torretta scenda dai lati a stritolarli.
“Ho tanta fame, mi accontenterei di mezza rapa marcia, di un solo boccone”.
I morti non si contano, eccone un altro abbandonato nel bianco totale, non tornerà più a casa. Quarantasei sotto zero, la pelle del palmo resta attaccata all’acciaio dei pezzi, “avere sulle mani gelate un briciolo del sole d’Italia”.
Dopo l’armistizio e nel periodo della Resistenza contro i nazifascisti, Bedeschi è stato federale mussoliniano in Romagna, con l’uniforme delle Brigate Nere della Repubblica Sociale. Alla fine della guerra scampò ai partigiani forlivesi e venne condannato in contumacia per non essersi presentato a rispondere in tribunale. Fonti attendibili lo danno riparato in quel periodo in Sicilia. Era cresciuto del resto a pane e fascismo: il padre era stato compagno di scuola di Benito a Faenza e biografo del Duce a Forlì.
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Tanti sopravvissuti alla spedizione in Russia avevano scelto invece il campo opposto, militando nell’antifascismo. Il Mario Rigoni Stern de Il sergente nella neve, altro capolavoro di quella campagna, sentiva d’essere stato tradito con tutti gli altri spediti in Russia dal fascismo a fare la voce grossa senz’armi ed equipaggiamenti. Rifiutò di servire quelli che considerava i veri nemici e rimase due anni recluso in un campo d’internamento germanico. Molti scelsero di andare in montagna, a mettere la loro esperienza di combattenti al servizio della libertà, tra le formazioni partigiane.
Settantacinque anni dopo, abbiamo la maturità di leggere il romanzo di Bedeschi per quello che è: non un trattato di politica, ma il documento di una storia vera, la testimonianza diretta di una pagina dolorosa per tutto il Paese.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: 1942-43, la seconda ritirata di Russia: decine di migliaia di morti nella neve. Il caso di Giulio Bedeschi
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