Avarizia e avidità sono sinonimi? La prodigalità è un peccato, una specie di reato o una patologia? Qual è il confine tra oculatezza e tirchieria? Seguitemi nel territorio semantico dove la ricchezza è percepita in modo disfunzionale. Dagli avari. Dagli avidi. Dai taccagni. Dagli spendaccioni.
Avarizia e avidità non sono sinonimi
L’avaro tende alla tesaurizzazione dei suoi beni, come Paperon de’ Paperoni, Scrooge del Canto di Natale di Dickens e Mazzarò in Verga (La roba). Non spende, per conservare. Questo modello antropologico è stato immortalato da Plauto e da Molière con pennellate differenti. Perché il commediografo francese all’avarizia unisce l’avidità. Qual è la linea di demarcazione tra i due difetti? A differenza dell’avaro, teso a mantenere il suo capitale, l’avido desidera anche aumentarlo. Sempre di più, mai pago dei guadagni ottenuti.
Da Plauto a Molière
Nel celebre testo plautino La commedia della pentola del 190 a.C. circa, l’avarizia del senex Euclione assume i tratti patologici dell’ossessione e della monomania. La custodia del suo tesoro — tutto ciò che possiede —, è fonte di preoccupazione costante. L’avaro, volendo controllare il suo, di fatto è schiavo dell’ansia di perderlo. Monopolizza a tal punto il personaggio da fargli perdere o quasi il contatto con la realtà. Infatti mentre sospetta di tutti come ladri potenziali... Euclione non si accorge che la figlia aspetta un bambino.
Ne L’avaro di Molière del 1688, il vecchio Arpagone non solo accumula come l’avaro plautino, ma esercita l’usura per aumentare il capitale. Seguendo la logica del profitto, investe parte del suo patrimonio per implementare i guadagni. Questa è una differenza significativa tra i due celeberrimi spilorci. Pertanto Arpagone è sia avaro perché conserva, sia avido perché continuamente impegnato ad arricchirsi.
Tiriamo le somme: un avaro non è necessariamente avido (Euclione insegna), un avido è sempre anche avaro (come Arpagone). Se non lo fosse sarebbe prodigo. Una persona che, spendendo senza discernimento in relazione a ciò che possiede, ha sempre bisogno di denaro e, volendo, di guadagnare.
Ho una sorpresa per voi. Sapevate che secondo l’Articolo 415 del Codice Civile tra le persone che possono essere inabilitate compaiono anche "coloro che per prodigalità espongono sé e la loro famiglia a gravi pregiudizi economici"?
Usciamo da questo scioglilingua con un riferimento a Dante e a Boccaccio.
Dante e Boccaccio
Nel primo Trecento Dante condanna duramente l’avidità (di cui il ceto mercantile è emblema), in quanto radice di tutti i mali della società sul piano morale, politico e religioso. È per questo che la colloca in vetta ai peccati, dribblando la superbia. Chi non ricorda le tre fiere minacciose che nel canto I dell’Inferno sbarrano il cammino al poeta che si è smarrito nella selva oscura? Una lonza, un leone e una lupa, allegoria dell’avidità o cupidigia, sinonimo dall’etimo latino.
“Ed una lupa, che di tutte brame
Sembrava carca nella sua magrezza,
E molte genti fé gia viver grame,Questa mi porse tanto di gravezza
Con la paura ch’uscia di sua vista,
Ch’io perdei la speranza de l’altezza.”
Davvero una bestiaccia questa lupa, così pericolosa che il Nostro rinuncia a salire verso il colle. La magrezza dell’animale allude all’insaziabilità sottolineata dall’irrequietezza dei versi successivi, qui non riportati per brevità. Allora in Dante avarizia, avidità e cupidigia sono sinonimi? Sì, e l’avarizia è uno dei sette peccati capitali. Non è un caso, infine, che Dante collochi nello stesso girone e cornice di Inferno e Purgatorio avari e prodighi: ritiene che peccato e tendenza peccaminosa di avarizia e prodigalità siano due facce della stessa medaglia. Un rapporto sbagliato con la ricchezza.
In pieno Trecento la posizione di Boccaccio sull’avarizia/avidità vira in modo significativo, ma non stabile. Vediamo perché cambia. Non è più un peccato come per Dante, bensì la cifra distintiva del ceto mercantile. Una forma di intelligenza pratica che implica ingegno, furbizia, spirito di iniziativa e l’esposizione al rischio. Però la posizione di Boccaccio non è stabile, poiché oscilla tra ammirazione e critica a riguardo. Lo provano rispettivamente due novelle: Landolfo Rufolo e Lisabetta da Messina. A chi come Boccaccio conosce bene l’ambiente affaristico, non possono sfuggire religione del profitto, inganno e una spregiudicata disinvoltura pur di arricchirsi, non priva di cinismo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Avarizia e avidità sono sinonimi? Gli esempi in Plauto, Dante, Boccaccio e Molière
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