

Carl Schmitt da studente, nel 1912 / Public domain, via Wikimedia Commons
Nella giornata di oggi, 7 aprile, ricorre la morte di Carl Schmitt, personalità tra le più controverse del Novecento, che offrì un’analisi estremamente lucida della crisi della società borghese ottocentesca, declinandola soprattutto sul piano giuridico, sociale e politico.
Nella sua riflessione Carl Schmitt lumeggiò gli effetti del progresso tecnico evidenziando la crisi conseguente dei valori e dei rapporti giuridici.
Nelle sue opere, oltre a leggere i due conflitti mondiali come una sorta di “guerra civile universale” che aveva decretato la fine delle forme di lotta politica tradizionali, tematizzò la categoria del “politico” connettendole ai concetti di amico e nemico.
Filosofo, giurista e militante del partito nazionalsocialista, fu avversato negli anni Trenta dalle SS, che gli impedirono di giocare un ruolo preminente nel terzo Reich. Nonostante questo, anche se dopo la guerra venne allontanato dagli incarichi universitari, non rinnegò mai le sue preferenze politiche.
A quarant’anni dalla sua morte, riscopriamo, allora, insieme, la vita, le opere e il pensiero di Carl Schmitt.
La vita e le opere di Carl Schmitt
Nato in una famiglia cattolica della Westfalia, Carl Schmitt (Plettenberg, 11 luglio 1888 – Plettenberg, 7 aprile 1985) si laureò e addottorò in Diritto, disciplina che, poi, insegnò in varie università tedesche, fino a ricoprire una cattedra a Berlino, dopo aver collaborato con l’allora cancelliere Kurt von Schleicher.
Interessato soprattutto al diritto internazionale, Carl Schmitt, dopo un’adesione convinta al partito nazionalsocialista, nel 1937 fu attaccato dalla rivista delle SS per la sua vicinanza alla chiesa cattolica e per il suo favore al presidenzialismo: ciò lo costrinse a rinunciare ad alcuni dei suoi incarichi nel regime hitleriano.
Alla fine della guerra fu catturato dalle truppe alleate e ascoltato durante il processo di Norimberga: nonostante alcuni volessero condannarlo venne prosciolto per un non luogo a procedere, ma gli fu imposto il divieto di insegnamento e fu, quindi, allontanato dall’università.
Contornato da una fama sinistra per non aver mai rinnegato il nazismo, Carl Schmitt si ritirò nella sua città natale, continuò a studiare e a pubblicare privatamente finché la morte lo colse quasi centenario.
Tra le opere più celebri e significative di Carl Schmitt segnaliamo:
- Teologia politica (1922);
- Il concetto di politico (1927);
- Dottrina della Costituzione (1928);
- Il nomos della terra (1950);
- Teoria del partigiano (1963).
Teologia politica e sovranità in Carl Schmitt
Nell’opera intitolata Teologia politica Carl Schmitt indica con questa espressione un particolare metodo di ricerca che individua l’origine dei concetti politici in quelli religiosi: tra di essi esiste una evidente analogia formale (le varie tipologie di sovranità definite dai filosofi e dagli studiosi di politica – la sovranità assoluta del monarca, quella del popolo – ricordano da vicino la sovranità di Dio), per questo è sempre opportuno sottolineare le connessioni e i parallelismi che intercorrono tra le due discipline.


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Proprio la sovranità è l’altro tema sul quale Schmitt riflette qui: contrapponendosi ad Hans Kelsen, egli nota che il fondamento della sovranità non è in una norma, quanto piuttosto nella decisione che pone in essere la sovranità stessa (da cui il termine decisionismo). Schmitt porta l’esempio delle situazioni di emergenza, ovvero di quello che nelle teorie politiche contemporanee è definito stato d’eccezione: in queste occasioni, quando una Costituzione, intesa come norma fondamentale di uno stato, viene sospesa, non cessa automaticamente anche la sovranità, anzi, è proprio in quel momento che possiamo osservare chi detiene la sovranità, il
“sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”.
Carl Schmitt e il concetto di politico


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Altro nodo pulsante del pensiero di Schmitt è la definizione del concetto di politico: giuristi e politologi si sono spesso concentrati sulla Stato e sulla sua natura, senza però offrire quasi mai una definizione esaustiva di ciò che è “politico”, un termine più originario ed essenziale di quello di “Stato”.
La politica è stata spesso definita negativamente, contrapponendola ad altre discipline, come l’economia, il diritto, la morale, oppure è stata fatta coincidere con lo Stato stesso. Ciò poteva essere legittimo in passato ma non lo è più nel Novecento, secolo in cui anche la società ha assunto un ruolo preminentemente politico.
Qual è allora l’essenza del politico? Alla ricerca di un criterio autonomo di definizione, Schmitt nota che le varie discipline che si intersecano con la politica si definiscono sulla base di alcune fondamentali coppie opposizionali (la morale su buono e cattivo, l’economia su utile e dannoso, ecc.) Allo stesso modo le azioni e le scelte politiche si fondano sulla coppia amico e nemico, intese pubblicamente come
- la porzione di umanità in cui ci si riconosce e,
- viceversa, la porzione di umanità in cui non ci si riconosce.
È questa la distinzione basilare, priva di qualunque connotazione privata e individuale – è bene ribadirlo – che definisce l’identità di uno Stato e che porta un gruppo di uomini, che evidentemente si percepiscono come amici, a collaborare entro un territorio che riconoscono come comune. Di contro, altri uomini, invece, non vengono riconosciuti come amici, quindi un gruppo politico si costituisce sempre in opposizione a un altro. Della politica Schmitt recupera un’etimologia poco frequentata (da polemos, guerra in greco), pertanto la collega saldamente alla guerra e la intende come una dimensione costitutivamente connotata dal conflitto: se non ci fosse contrapposizione non ci sarebbe politica. La stessa guerra, quindi, rimane una possibilità sempre ben presente nello scenario teorico delineato dal giurista tedesco e non può darsi alcuno stato universale:
“Sulla terra, finché esiste uno Stato, vi saranno sempre più Stati e non può esistere uno “Stato” mondiale che comprenda tutta la terra e tutta l’umanità. Il mondo politico è un pluriverso, non un universo”.
In questa disamina del concetto di politico Carl Schmitt esprime la propria preferenza per uno Stato forte o, meglio, totale: una democrazia plebiscitaria (che assicuri un contatto diretto tra elettori ed eletti), di matrice presidenziale. Si tratta di una soluzione teorica che, ancor prima dell’ascesa al potere di Hitler, giustifica la dittatura, vista come un assetto politico stabile e come la via d’uscita dal parlamentarismo e dal liberalismo che egli intende come due mali profondi del suo tempo: il primo, infatti, allontanerebbe i partiti, interessati solo a spartirsi il potere, dagli elettori, mentre il secondo sarebbe l’espressione più compiuta degli interessi particolari. Quando si concretizzò il regime nazista, Carl Schmitt lo abbracciò, convinto che realizzasse storicamente quel che lui, pochi anni prima, aveva preconizzato.
La storia universale e i centri di riferimento
Rivolgendo il proprio sguardo alla storia Carl Schmitt ritiene che la società occidentale si sia organizzata sempre attorno a dei centri di riferimento, ossia a dei nuclei, a degli ambiti spirituali condivisi, intorno ai quali la vita delle persone gravitava e che influenzavano anche la sfera politica. Il Cinquecento, ad esempio, avrebbe un centro di riferimento teologico (dal momento che prima della Riforma, tutto l’Occidente condivideva la dottrina cattolica), quello del Seicento sarebbe un centro di riferimento metafisico-scientifico, e così via, fino al Novecento dominato dalla tecnica.
In ogni epoca (grossomodo ogni secolo) troviamo un centro di riferimento diverso perché quest’ultimo, da terreno neutrale che garantisce un accordo su premesse comuni, diviene gradualmente un terreno di scontro che rischia di portare al conflitto: sorge, allora, la necessità di individuare un nuovo centro ordinatore che, inizialmente neutrale, è destinato a diventare terreno di scontro. Lo stesso vale per la tecnica, che secondo Schmitt può essere strumento di libertà o di oppressione, alfiere della rivoluzione ma anche del conservatorismo.
La guerra giusta e la critica del diritto universale


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Tra le opere più controverse e studiate che Carl Schmitt dà alle stampe nel secondo dopoguerra troviamo Il Nomos della terra (1950), dove il giurista tedesco si interroga sui mutamenti del diritto pubblico sovranazionale. Egli nota che con la Pace di Westfalia (1648), che mette fine alla Guerra dei Trent’anni, si configura un ordinamento territoriale fondato sullo spazio, dove gli stati nazionali interagiscono come entità storiche e geografiche solide e ben delineate. Questo trattato delinea una prima regolamentazione delle guerre e l’affermazione della diplomazia, come strumento per la loro risoluzione. Gli Stati rimangono amici e nemici, si alleano e si scontrano, ma non si assiste mai a guerre di sterminio, nel conflitto c’è sempre un confronto e un riconoscimento del nemico.
Questo scenario muta nel Novecento, alla fine della Prima Guerra mondiale nasce, infatti, la Società delle Nazioni, un’istituzione universale e scollegata da uno spazio, che si proponeva, velleitariamente, di evitare per sempre nuove guerre. Con essa anche la guerra cessa di essere occasione di confronto e di scontro: diventa conflitto che minaccia l’ideale della pace e può configurarsi anche come guerra di sterminio che oppone i difensori dell’umanità ai suoi nemici.
Lo stesso concetto di nemico cambia, dal momento che mentre prima si contemplava la possibilità di un nemico giusto, che anche se sconfitto conservava i suoi diritti, ora si recupera, piuttosto, la nozione di “guerra giusta”, dove il nemico che avversa la pace e il consesso internazionale degli Stati, diviene un criminale da annientare.
Questo mutamento di paradigma è reso ancor più evidente con la seconda guerra mondiale: la Società delle Nazioni fallisce il suo obiettivo ma risorge con l’ONU e il Tribunale di Norimberga, mentre i conflitti, sempre sommamente ingiusti, assumono la natura di crimini contro l’umanità.
Con grande capacità premonitoria Carl Schmitt tratteggia le guerre del futuro prossimo come operazioni di polizia internazionale di cui si incaricheranno le maggiori potenze in nome dell’umanità (è il ruolo storicamente svolto dagli Stati Uniti per alcuni decenni): in questo nuovo scenario, se tutti gli Stati confluiscono in un ordine mondiale (di cui l’ONU è espressione) la guerra, pur delegittimata come strumento politico, è sempre “guerra civile mondiale,” una lotta tra difensori del bene e sicari del male, priva di regole ed estremamente sanguinaria.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Carl Schmitt: vita, opere e pensiero del controverso filosofo tedesco
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