La filosofia di Hannah Arendt ha avuto un impatto decisivo sul pensiero occidentale del Novecento. I suoi saggi La banalità del male (1963) e Vita Activa. La condizione umana (1978) sono tra le opere filosofiche più lette e citate al giorno d’oggi.
Il merito della filosofa e scrittrice è di essere riuscita a indagare la natura del potere e le condizioni che resero possibile lo stanlinismo e il nazifascismo.
Tedesca ma di origine ebrea, la Arendt visse sulla propria pelle la follia della Seconda guerra mondiale. Avrebbe in seguito denunciato quella deriva della ragione umana in tutti i suoi scritti, gridando a gran voce gli orrori, le nefandezze compiute da quegli uomini al potere che calpestarono, sino a ridurli in polvere, i diritti civili inalienabili di ogni essere umano.
Hannah Arendt: una biografia
Hannah Arendt nacque il 14 ottobre 1906 a Linden, un sobborgo di Hannover nella Germania settentrionale, da una famiglia borghese di origini ebraiche.
Studiò filosofia all’Università di Marburgo, laureandosi nel 1929 con una dissertazione sul concetto di amore secondo Sant’Agostino.
Proprio nel corso degli studi universitari si innamorò di uno dei più influenti pensatori del Novecento, Martin Heidegger. La relazione tra i due si interruppe a causa del profondo solco ideologico che li divise alle soglie delle guerra. Martin Heidegger al principio del conflitto mondiale era filo-nazista, mentre la Arendt era una delle principali avversarie ideologiche del regime. I due ebbero una relazione tormentata che costò diverse critiche alla Arendt a causa delle discusse e controverse posizioni politiche dell’amante.
Dopo aver conseguito brillantemente la laurea con il massimo dei voti, alla Arendt venne impedito di insegnare a causa delle leggi razziali promulgate dai nazisti.
In seguito a quel divieto Hannah Arendt, all’inizio degli anni Trenta, cominciò a interessarsi a temi legati all’antisemitismo. A causa delle sue posizioni finì presto nelle mire della Gestapo, che la fece imprigionare per alcuni mesi nel 1933.
In seguito all’avvento delle persecuzioni fasciste la Arendt abbandonò la Germania, attraversando il cosiddetto confine verde delle foreste della Erz. Passando per Praga, Genova e Ginevra, infine giunse a Parigi.
Resterà nella capitale francese sino al 1951, anno in cui attraverso un visto falso riuscirà a raggiungere gli Stati Uniti. A New York la Arendt iniziò a scrivere articoli e riflessioni sulla condizione degli ebrei e il nazifascismo. Nel frattempo iniziò a lavorare come docente in alcune università, da Yale a Princeton.
Nello stesso periodo iniziò la stesura di una serie di articoli per il New Yorker sul processo a Adolf Eichmann, che vennero poi raccolti nel saggio dal titolo La banalità del male (1963). Il libro ebbe un successo planetario.
La banalità del male
Nel suo saggio più famoso La banalità del male, la Arendt teorizza che il male non si annida in individui malvagi o brutali, ma in persone comuni, ordinarie, spesso capaci di pensare e riflettere.
La domanda che assillava la filosofa tedesca era: Può una persona commettere il male senza essere malvagia?.
Tutta la filosofia di Hannah Arendt nacque dal desiderio di “comprendere” il tempo in cui viveva. Fu immersa nella storia del cosiddetto “Secolo breve”, il Novecento, e cercò di narrare con parole proprie la contemporaneità che la assillava con tutte le sue contraddizioni. Visse nel secolo della Shoah, della Seconda guerra mondiale, del totalitarismo, della bomba atomica e cercò di ordinare tutti questi fenomeni e dare loro un senso.
Una sua celebre frase afferma:
Siamo contemporanei fin dove arriva la nostra comprensione.
Tutto il suo scrivere era mosso dalla strenua volontà di comprendere, di cercare una conciliazione con l’epoca tumultuosa in cui era immersa, di scendere a patti con la realtà. La scrittura arendtiana si poneva al servizio del pensiero, che era uno strumento imprescindibile per la rivelazione di un senso. Dare un senso alle cose, nominarle, era un principio necessario all’esistenza.
Recensione del libro
La banalità del male
di Hannah Arendt
Dall’analisi della testimonianza storica resa dal processo ad Adolf Eichmann, SS nazista, la Arendt conclude che sì, ciò è possibile. Eichmann non era un perverso né un sadico, non era un mostro senza morale, eppure compì azioni orribili e questo è un fatto indiscutibile.
Tuttavia, teorizzò la filosofa, Eichmann non ebbe mai piena coscienza di commettere il male: commise il male, senza cattive intenzioni, influenzato da un ideale superiore.
Un male dunque ordinario, mediocre, quasi casuale, che non ha nulla di demoniaco né di mostruoso. Una malvagità, dunque, che si sottrae al pensiero, alla coscienza stessa.
Durante il processo Eichmann cercò di scagionarsi affermando di aver semplicemente obbedito agli ordini, rifacendosi quindi a un principio superiore di autorità come se questo bastasse a redimerlo. Alla stregua di molte altre SS, rimetteva le sue responsabilità al “meccanismo nazista” dal quale si sentiva in qualche modo assoggettato e inglobato.
Commise i suoi crimini in circostanze che gli resero quasi impossibile capire o sentire cosa stesse facendo di male.
In seguito a queste riflessioni la Arendt arrivò a teorizzare il concetto di "banalità del male", che ormai è passato alla Storia. Il vero pericolo rappresentato dal Nazismo, concluse la filosofa, fu quello di aver condotto uomini anonimi e banali, semplici padri di famiglia o tranquilli operai, a compiere il male più atroce. Questi uomini agivano come sottoposti a un meccanismo infernale. Lo stesso pensiero Arendt lo applicò anche agli scienziati che lavorarono alla costruzione della bomba atomica. Uomini che operarono per uno scopo superiore, nella totale incoscienza dell’effettivo valore morale delle proprie azioni.
La filosofa riuscì a cogliere appieno la dualità del personaggio di Eichmann: era un uomo colto che si commuoveva ascoltando Beethoven, un amorevole padre di famiglia che dava il bacio della buonanotte ai suoi bambini e, al contempo, era un freddo burocrate e un criminale nazista capace di ordinare spietatamente la morte di vittime innocenti. Il punto è che di Adolf Eichmann ne esistevano altri milioni, tutti sottomessi alla medesima logica: placidi agnelli che si trasformavano in lupi obbedendo all’autorità.
Seguendo passo passo l’intero processo, Arendt rimase colpita dalla superficialità dell’imputato: non era un uomo demoniaco né mostruoso, era un tipo mediocre, banale, anonimo, eppure la malvagità dei suoi atti era incontestabile.
Sulla base di queste deduzioni Hannah Arendt concluse che il male non è mai “radicale”, né profondo, soltanto estremo:
Quel che ora penso veramente è che il male non è mai “radicale”, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso ‘sfida’ come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’. Solo il bene è profondo e può essere radicale.
Questa tesi apparve scomoda e fu parecchio impopolare tra le comunità ebraiche, che accusarono la filosofa tedesca di aver giustificato, con queste affermazioni, le azioni demoniache dei nazisti. Non era certamente questo l’intento di Arendt che tra l’altro - dobbiamo ricordarlo - apparteneva lei stessa alla comunità ebraica.
Lei era riuscita a valutare il nazismo da una prospettiva differente, quella di una filosofa e solo grazie a questo distacco privilegiato era riuscita a cogliere l’effettiva drammaticità del fenomeno. Ciò che l’umanità intera doveva temere non era dunque gli SS, spietati carnefici, ma l’entità del meccanismo nazista che riusciva a trasformare gli esseri umani in belve senza cervello né morale.
Cos’è il male secondo Hannah Arendt
Ancora oggi il pensiero di Arendt suscita numerosi interrogativi. Si può davvero fare del male senza tuttavia essere intrinsecamente malvagi? Alcuni pensatori sono scettici a proposito di questa conclusione, affermano che la filosofa non abbia approfondito abbastanza il pensiero di Eichmann dal punto di vista storiografico. Altri, invece, ne considerano la straordinaria attualità che quasi sfiora la preveggenza. L’idea del “male che si sottrae al pensiero” è una concezione estremamente moderna, che sembra nata dalle più contemporanee teorie psicologiche. Arendt fu la prima a condannare i lager nazisti come il ritratto incarnato “dell’inferno medievale”, ma ebbe anche il merito di capire - prima tra tutti - che dietro il personaggio di Adolf Eichmann si celava una complessità che non poteva essere ridotta alla semplice parola “malvagità”. Il dualismo tra bene e male è ricco di sfumature e la filosofa tedesca riuscì a coglierle con straordinaria arguzia.
A ben vedere la tesi della cosiddetta “banalità del male” era la conclusione più tremenda cui si potesse pervenire. Poiché Arendt ammette, con straordinaria lucidità, che il male non è appannaggio esclusivamente di esseri mostruosi e terribili ma può essere compiuto quotidianamente da milioni di individui anonimi se guidati da una ferma ideologia.
Affermando il suo pensiero, la filosofa tedesca non assolve Adolf Eichmann dai suoi crimini ma chiama l’umanità intera a riflettere su un concetto tanto veritiero quanto pericoloso: Eichmann - e tutti gli uomini come lui - ci circondano quotidianamente, possono essere i nostri amici o vicini di casa, possono essere in ogni volto che incrociamo per strada. Una vita normale può convivere con la malvagità più mostruosa: è questa la banalità del male.
Non è una conclusione consolatoria né salvifica, a ben vedere, ma è una considerazione vera e un insegnamento di cui l’umanità dovrebbe far tesoro ogni giorno per affrontare la realtà lucidamente con occhi vigili e pronti a cogliere l’attimo in cui il Male si risveglia come un lupo dormiente sepolto nel buio profondo della coscienza.
Hannah Arendt morì a New York il 4 dicembre del 1975 a causa di un attacco cardiaco: aveva soli 69 anni. I suoi saggi sono letti e studiati in tutto il mondo, l’eco del suo pensiero non si è mai spento.
Il suo ultimo scritto, un saggio intitolato La vita della mente, è rimasto incompiuto.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Hannah Arendt: la filosofa che si batté contro il totalitarismo
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