Durante il 2022, chi scrive è stato impegnato in una serie di nuove ricerche sul polemista antinapoleonico Vittorio Barzoni (1767-1843), un bresciano suddito della Repubblica Veneta che davanti all’avanzata delle truppe francesi rimase testardamente fedele a San Marco.
Questi studi si sono tradotti nella pubblicazione del recente volume Due storie di mare di Vittorio Barzoni, edito da Elzeviro nel 2023.
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Nei mesi di consultazione delle biblioteche, allo scrivente è tornato in mano un piccolo romanzo di Rita Da Pont: In quella calda estate. Un amore nelle guerre napoleoniche (Cierre, 2020), ambientato a Belluno proprio al tempo dell’invasione napoleonica.
Esistono molti saggi storici romanzati, ma viceversa ci sono anche romanzi storici che a tratti assomigliano più a dei saggi che a delle opere narrative, In quella calda estate rientra in questa seconda categoria.
I romanzi storici che sembrano saggi sono opere in cui l’autore si concentra principalmente sulla trasmissione di informazioni storiche piuttosto che sull’aspetto narrativo, testi in cui anche elementi assolutamente ordinari - a scapito della freschezza e del realismo - sono presentati come emblemi o sintomi di un processo storico, o preludio a spiegazioni sui mutamenti di un’epoca.
Questi romanzi sono segnati da una narrazione poco coinvolgente, con un’eccessiva enfasi sull’esposizione del quadro storico che inficia la costruzione dei personaggi e della trama.
A fronte di ciò, spiace tuttavia che nei capitoli di In quella calda estate, in riferimento alla fine del Settecento, torni spesso il nome Veneto come indicazione geografica (anziché “la Venezia”, “il Veneto Dominio” o “le Province Venete”) quando nei fatti è solo con il Regno Lombardo-Veneto che per la prima volta la parola Veneto venne usata con l’accezione geografica che le diamo oggi.
Ciò premesso, il libro può comunque offrire spunti di riflessione importanti e profondi sulle miserie della guerra, e in fondo anche sui comportamenti umani e su come a volte la vittoria militare giustifichi, almeno in una certa misura, le azioni dei vincitori agli occhi di coloro che scelgono di collaborare con loro.
“In quella calda estate”: un’analisi dei personaggi del romanzo
I protagonisti de In quella calda estate sono due amanti: Elisabetta, una nobildonna bellunese, e Dominique, un soldato francese.
Nel prologo, Dominique ci è introdotto mentre nel 1835 medita sulla necessità di scendere a patti con il governo austriaco per mere ragioni di sopravvivenza. Il fatto che una simile operazione gli sia concessa senza particolari problemi rientra nel fenomeno che a quell’epoca fu definito “perdonismo” e contro cui protestarono polemisti come Monaldo Leopardi (1776-1847) e soprattutto il Principe di Canosa (1768-1838).
Il fatto che un vecchio repubblicano potesse pensare di reintegrarsi nel “nuovo mondo” governato dagli Asburgo è a sua volta un esempio di quanto sia stata effimera la cosiddetta Restaurazione seguita al Congresso di Vienna, nelle cui debolezze si sono sviluppati i semi di altre devastanti rivoluzioni.
I governi restaurati non si impegnarono a epurare le comunità dai sovversivi, giungendo non solo a tollerarli, ma addirittura a concedergli di accedere a cariche importanti.
Nei capitoli successivi si apprende che Dominique da bambino ha assistito a un furto (ricollegato nientemeno che al disagio economico che condusse la Francia alla Rivoluzione) restandone traumatizzato, ciononostante una volta cresciuto si trova anch’egli a essere parte di un gruppo di predoni: l’armata di Napoleone, che giustifica le razzie in nome di una fantomatica Liberté.
Noi abbiamo idee nuove, vogliamo un mondo più giusto.
Elisabetta invece è quasi una goldoniana “donna di testa debole”, con tanto di piccole velleità letterarie, non dissimile da tante altre signore che ebbero un ruolo di maggiore o minore colpevolezza nella caduta della Serenissima.
In generale non è un personaggio ben delineato, ma alcuni suoi atteggiamenti sono ricostruiti con forte realismo e possono indurci a interrogarci sui comportamenti umani.
Rita Da Pont scrive:
Era ormai consistente e cresceva sempre più il “partito” dei patrioti italiani, che guardava alla Francia con una speranza, che aveva letto i libri degli illuministi assimilandone le idee.
In effetti l’avanzata napoleonica in Italia vide emergere ovunque la triste figura del vendipatria. Nel suo libro Rivoluzioni della Repubblica Veneta (1799/1800?), Vittorio Barzoni riassunse in questi termini l’atmosfera di quei giorni terribili:
Chiunque si opponeva alle nuove istituzioni diventava reo di morte. Tutti i Veneziani che avevano difesa la patria, e che piangeano sulle ceneri della sua indipendenza, erano delinquenti. Per essere salvi conveniva aver tradito lo Stato.
E descrisse così i francofili rapidamente saliti al potere:
Uomini di nessuna facondia, di nessun ingegno diventarono in un batter d’occhio oratori e legislatori. Questi deliranti Tribuni con pompose notificazioni annunziarono alla stupidità popolare libertade, eguaglianza, e ad ogni momento commisero atti o messaggeri o complici di tirannide, di sproporzione, di morte. Intesi a fondare il loro concetto sulle scellerataggini d’ogni genere, violarono per tutto le lettere e sopra minimi indizj fecero gittar nelle carceri infiniti innocenti.
In questo contesto si inserisce anche il racconto de In quella calda estate, che descrive la convivenza tra una parte della popolazione bellunese e gli invasori:
Le aristocratiche padrone – diafane e altezzose – si abbigliavano elegantemente per il pranzo o la cena con gli ufficiali ospitati nelle loro dimore.
È così che Elisabetta conosce Dominique, mentre l’aria della rivoluzione sembra permeata di una nuova libertà dei costumi.
Le nobildonne che accolsero i francesi spesso erano già in contatto con loro da tempo e, secondo le loro capacità, gli avevano fornito mezzi e aiuti per avanzare, tradendo la Patria in nome di ideali astratti o di semplici interessi personali.
Il comportamento delle nobildonne
Anche Vittorio Barzoni assistette a manifestazioni simili e le commentò ferocemente:
I talami vennero corrotti: i favori delle Taidi diventarono veicolo agli avanzamenti: lo stupro e l’adulterio succedettero alle lodi ampolose del pudore e della continenza; l’artificiosa nudità femminile che invitava agli arditi, ed impavida aspettava gli ardimenti, fu liberamente permessa.
Taide è l’adulatrice per antonomasia, evocata da Dante nel Canto XVIII dell’inferno, con uno dei linguaggi più triviali di tutta la Commedia.
Ancor più duri furono gli strali lanciati da Antonio Maffei (1759-1836) - un ufficiale veneto che descrisse le razzie napoleoniche a Verona - verso le nobildonne sue concittadine che tramarono coi francesi o che si misero dalla loro parte non appena ebbero raggiunto il potere.
Come personaggio letterario Elisabetta non è affatto una donna forte, bensì una figura fragile alla ricerca di un uomo da essa percepibile come dominante, “un cavaliere da un luogo lontano” che imponga la sua legge, poco importa se si tratta di liberté o di rapina:
Era convinta che la vita militare potesse dare non solo un senso di ordine all’esperienza, con i suoi ritmi precisi, ma offrisse al contempo, la possibilità di misurarsi con se stessi, viaggiando, spaziando tra ambienti diversi, tra persone nuove e popoli mai visti.
Evidentemente simili fantasie le bastano per mettere in secondo piano gli spargimenti di sangue compiuti dagli invasori, tra fascino della divisa e sindrome di Stoccolma.
La protagonista femminile non ha mai trovato maschi di suo gusto a Belluno:
I maschi del suo ceto? Spesso deludenti e talvolta troppo libertini, si nascondevano dietro la facciata del perbenismo ipocrita.
Meglio quindi un bel brigante francese, magari macchiatosi delle peggiori atrocità nascoste dietro la facciata della Marianna.
Maffei nei suoi diari ha lasciato scritto che nel Veronese i francesi:
Andavano a provvedersi di viveri liberamente in tutta la Campagnola ed in tutte le colline, bruciando le case dei poveri villani, che si vedevano la notte incendiate [le case] dalla città. Arrestavano i poveri contadini, che poi fucilavano in Castello e massacravano le loro famiglie.
Prima della rivoluzione, Elisabetta era rimasta sconvolta apprendendo che al casino dei nobili un gruppo di notabili aveva commesso degli stupri, ma sulle azioni (e gli stupri) dei francesi non si pone troppe domande.
È quasi incomprensibile come, nelle sue considerazioni, Elisabetta riesca a scaricare tutta una serie di giudizi sulle spalle dei maschi autoctoni (“libertini”, “poco signorili”) ignorando al contempo la realtà palese di una soldataglia straniera che tratta le donne al pari di un bottino di guerra.
Possibile che la nobildonna, appena svincolatasi dal duro corsetto della famiglia, non riesca a concepire un’azione più alta che andare concedere i suoi favori al nemico?
Il perno narrativo dell’intero romanzo è la volontà di diverse donne bellunesi di varia estrazione sociale di intrecciare relazioni amorose con gli invasori, forse – ci viene da pensare – spinte da un impulso primordiale: il fascino del vincente, dell’aggressore, del prepotente, l’istinto di sopravvivenza.
Viene da chiedersi se questa realtà si leghi a doppio filo con “l’inaccettabile corollario delle guerre" descritto nel romanzo:
Sempre uguali nelle prevedibili dinamiche: da una parte i soldati, propensi all’uso indiscriminato della forza, a prescindere dalla bandiera, dall’altra le donne, migliaia di donne, sempre disperatamente senza difesa di fronte a uomini in marcia.
Il tema del tradimento e delle “spose di guerra”
In 1984, immaginando una tremenda dittatura totalitaria, George Orwell descrive le giovani ragazze come le più zelanti sostenitrici del regime; lo scrittore britannico era forse convinto che il loro conformismo sia frutto di un più forte spirito di sopravvivenza, che affonda le sue origini nella biologia del genere umano.
Comunque sia, i tradimenti in rosa, le collaborazioniste e le spose di guerra sono realtà storiche che tutti conoscono; il libro che abbiamo preso in esame ci racconta di alcune donne bellunesi che amoreggiarono con i soldati napoleonici, ma gli esempi sono innumerevoli: sotto la repubblica di Salò altre donne si innamorarono dei nazisti e nell’Europa dei nostri giorni abbiamo potuto assistere anche a numerosi casi di “spose dell’Isis”, ossia di quelle donne che sono state affascinate da terroristi musulmani e ne sono diventate complici.
Le ragioni profonde di tutte queste scelte di vita (o di morte), manifestatesi in momenti diversi nel corso della storia, andrebbero indagate caso per caso.
Tornando alle vicende della rivoluzione e dell’occupazione di Belluno nel 1797, ci si può chiedere: è davvero il “savoir faire” dei soldati a permettergli di “conquistare ingenue fanciulle o ben più navigate signore” o è la violenza, il potere, la speranza di salire sul carro di un vincitore (anche se spesso destinato a essere il perdente del giorno dopo)?
Per chi sa leggere con attenzione la storia di In quella calda estate, dando peso soprattutto a ciò che non è detto ma sottinteso, lo sviluppo delle vicende è anche un’esposizione degli orrori della Rivoluzione: in parte quelli materiali (le stragi, il crimine giustificato dal tricolore repubblicano), ma anche quelli altrettanto dolorosi che riguardano la morale, ossia il tradimento della Patria e il mercimonio elevati a virtù.
Nel 1797, mentre le nobildonne banchettavano coi francesi e i vendipatria occupavano i seggi delle ridicole municipalità provvisorie, che ne è stato di chi è rimasto fedele al governo legittimo?
Ci sovviene l’esempio del già citato Antonio Maffei che scrisse i suoi diari per castigare chi tradì la Serenissima, ma rattristato dalla consapevolezza che forse nessuno si sarebbe mai curato delle sue testimonianze.
La rivoluzione è la lotteria degli avventurieri. Le vittime delle catastrofi rivoluzionarie sono sempre e innanzitutto gli individui onesti, le persone costanti e onorate, portatrici di valori etici, e dai sentimenti più leali.
Questi sono senza dubbio i maggiori insegnamenti del romanzo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il tema delle spose di guerra nel romanzo storico “In quella calda estate” di Rita Da Pont
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