L’albero e la vite
- Autore: Dola de Jong
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: La Nuova Frontiera
- Anno di pubblicazione: 2023
La storia editoriale di questo romanzo ( L’albero e la vite, titolo originale De thuiswacht, La Nuova Frontiera, 2023, trad. it. di Laura Pignatti) è curiosa, così come è curiosa la storia della sua autrice, l’olandese di origini ebraiche Dola de Jong.
Sessant’anni fa nessuno voleva pubblicare questo libro, giudicato “scandaloso”, definito “la storia di un amore perverso”. Alice van Nahuys, la direttrice editoriale di Querido Verlag, lo giudicò con un lapidario: “Impubblicabile”.
La sorte peggiore per un romanzo, quella di non trovare un editore e dunque non avere forma, restare carta da impastare, un prisma di fogli dattiloscritti pronti a essere dispersi alla prima folata di vento. L’autrice, Dola de Jong, all’epoca era già discretamente conosciuta per il suo libro d’esordio Dans om het hart (1939), in cui raccontava l’esperienza di giovani donne che cercavano di farsi strada nel mondo della danza. Qualche anno dopo Dola si era riaffacciata al mondo letterario con un nuovo romanzo And the Field is the World, una storia di esuli molto apprezzata dall’editore Scribner di New York. Ora, però, Maxwell Perkins, l’editor di Scribner, era andato in pensione e il suo successore storceva il naso di fronte a questo manoscritto che trattava un tema decisamente troppo scandaloso per l’America di McCarthy. Se il sostegno degli editori veniva meno, di certo non mancava quello degli amici. Chi lesse l’opera di Dola de Jong quando ancora era una risma di fogli informe non aveva dubbi: “Un capolavoro” dicevano “Non cambiare una parola”, dicevano.
Fu grazie agli amici scrittori di Dola e al loro fiuto fino che De thuiswacht venne pubblicato, con inammissibile ritardo, nel 1954 dall’editore olandese Querido dietro richiesta di Marnix Gijsen. Le recensioni, a dispetto dei timori di Alice van Nahuys, furono entusiaste: i critici impazzirono per il romanzo definendolo “un’opera d’arte”, permaneva solo qualche perplessità - comprensibile data l’epoca - relativa all’argomento trattato.
Oggi L’albero e la vite è il romanzo più conosciuto di Dola de Jong, l’opera che ha contribuito a consacrarne la fama di scrittrice. Questo libro breve, folgorante e così anticonvenzionale arriva ora per la prima volta in Italia grazie a La Nuova Frontiera, nella traduzione di Laura Pignatti. Ma qual era l’argomento scandaloso che ne tardò tanto la pubblicazione? vi starete chiedendo. Si tratta davvero di una storia così indecente e immorale?
Assolutamente no, diremmo ora, con la mente aperta del XXI secolo; ma considerando l’epoca in cui è stata scritta, l’opera di De Jong dovette creare parecchio scompiglio come, del resto, tutte le opere letterarie che provocano un’autentica rivoluzione di pensiero.
L’albero e la vite narrava infatti la relazione tormentata tra due giovani donne nella Amsterdam minacciata dall’incombere del nazismo e dai venti avversi della Seconda guerra mondiale. Sebbene l’omosessualità delle protagoniste sia trattata solo di sfuggita, con molta delicatezza e quasi con reticenza, l’argomento rimaneva scottante negli oscuri anni Cinquanta del secolo scorso in cui il lesbismo era ancora giudicato una “malattia”. Il tema, che faceva tanta paura agli editori, provocò invece l’immediato entusiasmo dei lettori che sommersero la povera autrice, Dola de Jong, con una valanga di lettere: tanto che, si legge nella postfazione del libro, la sua editrice fu costretta a inviarle un telegramma quasi minatorio: “Don’t open your fanmail!”. Il pericolo era che i lettori scambiassero Dola per una psicologa, una confidente, o peggio, addirittura un’amica: il contenuto dei messaggi non era di genere letterario, ma si trattava di una specie di “posta del cuore.” Quella tumultuosa reazione collettiva era il segno che Dola de Jong era riuscita a toccare un nervo scoperto, a individuare il punto nevralgico di un malessere diffuso, un’inquietudine latente che serpeggiava tra molte donne - alcune persino sposate - che ora le scrivevano confessandosi e cercando in lei un aiuto, un sostegno o un riscontro. Ci sono libri capaci di provocare autentiche rivoluzioni sociali e Dola de Jong - che ormai viveva da tempo in America ed era da poco convolata a nozze con il suo secondo marito - si trovò suo malgrado nel mezzo della tempesta. Ora il libro c’era, esisteva, e ciascuno poteva farlo proprio, cercando tra le pagine le risposte di cui aveva bisogno.
La modernità de L’albero e la vite, ciò che rende il romanzo di De Jong ancora oggi attuale e godibile non è da ricercare tanto nella “scabrosità” del tema trattato, ma nella suprema sincerità dei suoi personaggi e nella tensione che si accumula a ogni pagina.
Ogni parola scritta dall’autrice è incisiva come un bisturi e sembra essere una fotografia - talvolta spietata - della realtà di allora: sopra tutto incombe la minaccia della guerra, dapprincipio solo un rumore di fondo, poi una tragedia annunciata che si infiltra pian piano nelle vite delle due protagoniste. Questo presagio di catastrofe imminente non ci abbandona mai, e soprattutto non lascia il personaggio più riuscito del romanzo di Dola de Jong: Erica. Ragazza ribelle, inquieta, totalmente inaffidabile, ma dotata di un coraggio senza pari. È lei il vero centro della narrazione, ciò che ci fa divorare i capitoli con un’ansia febbrile: cosa ci aspettiamo da questa storia? In fondo il libro si apre con un incontro che corrisponde alla sua entrata in scena:
Incontrai Erica nel 1938 a casa di Wies (...) Ora, dopo tutti questi anni, vedo ancora Erica davanti a me, il modo in cui si alzò da quel divano e venne a stringermi la mano. Aveva un viso giovane, tondo, per quanto la sua bocca avesse qualcosa di vecchio, con le estremità rivolte in giù, e un’espressione intensa, un po’ malinconica, negli occhi castani.
Erica viene ritratta da subito come una presenza inquieta, malinconica, forgiata come una lama di ferro sulle sue stesse contraddizioni. E per tutto il romanzo noi non ci auguriamo che una cosa: salvarla.
L’albero e la vite si apre e si chiude con un nome, Erica, ed è come un racconto lungo che ruota tutt’attorno alla parabola autodistruttiva della sua protagonista. La storia è raccontata dal punto di vista di Bea, una giovane segretaria con la testa sulle spalle, intelligente, tranquilla che sembra fare sempre “la cosa giusta”; ma la sua labile identità sbiadisce al cospetto di quella - decisamente incendiaria - di Erica. Bea rimane subito affascinata, sin dalla prima stretta di mano, da questa strana ragazza che in breve tempo riesce a sovvertire tutti i suoi piani e a spazzare via - come una folata di vento forte - tutte le sue certezze.
Poco tempo dopo il loro primo incontro le due vanno a vivere insieme, come coinquiline, in un piccolo appartamento lungo il canale di Amsterdam. Inizia così un anno di tormenti, per entrambe. Nel mezzo ci sono lontananze angosciose e momenti di vicinanza ancora più distruttivi. Più che l’amore in questo libro emerge l’incapacità di amare. Bea è sotto tutti i punti di vista un personaggio fallimentare: il suo proposito di “fare la cosa giusta” il più delle volte urta i nervi, verrebbe voglia di prenderla per le spalle, scuoterla forte e finalmente chiederle “Ma tu cosa vuoi davvero?”. Anche se, sotto tutti i punti di vista, il personaggio più scostante e contraddittorio sembrerebbe essere Erica, eternamente in fuga, da sé stessa in primo luogo. Ma le ragioni della fuga di Erica possiamo benissimo comprenderle, perché ci viene rivelato, tra le righe, molto sul suo conto: è una giornalista precaria, ha un padre assente che praticamente la disconosce e una madre subdola e anaffettiva che, diventata fanatica nazista, si rivelerà essere il suo più grande nemico. Erica non ha radici, ma cerca ali per volare.
Nel libro viene descritta una scena, molto bella, in cui Erica viene paragonata a un uccello:
Non molto tempo dopo, in una calda domenica di ottobre, mi venne da paragonarla a un uccello che non sa decidere dove posarsi (...) Continua ad andare avanti e indietro, si sposta spaventato, svolazza qua e là, per alzarsi in volo elegantemente, ma poi virare all’improvviso e ricominciare da capo.
Questo eterno volo sembra fotografare la sua inquietudine e lo spirito stesso del romanzo. L’albero e la vite è la storia raccontata da Bea, ma è soprattutto la parabola esistenziale di Erica, personaggio sfuggente, inquieto, complesso e bellissimo che Dola de Jong riesce a cogliere nella sua essenza lasciandocene un’impressione indelebile. A fine lettura anche noi, proprio come Bea, sentiamo di essere stati attraversati da una presenza eccezionale. Con un nodo di commozione stretto in gola rileggiamo più volte l’ultima pagina e poi torniamo indietro, immaginando di rivedere Erica seduta sulla spiaggia mentre guarda il mare e il suo sguardo si smarrisce nel tentativo di cogliere il segreto di quell’infinità.
Bea ed Erica appaiono affini al simbolismo dello yin e lo yang, due opposti complementari che si intrecciano come “l’albero e la vite”. L’immagine di copertina scelta per l’edizione italiana del libro, non a caso, raffigura due volti di donna intrecciati, sovrapposti, indivisibili. In questa sintesi ritroviamo il ritratto perfetto di Dola de Jong che nelle sue protagoniste si era scomposta, affidando loro parti di sé: anche lei, come Bea, aveva perso la madre in tenera età; anche lei, come Erica, era di origine ebrea e aveva una natura ribelle, inquieta, fuggitiva, in contrasto con le idee paterne. Nelle due protagoniste si incarna un contrasto interiore, un desiderio di rivalsa che apparteneva alla stessa autrice. Affidando alle sue due giovani eroine la paura, l’euforia e lo sconforto da lei stessa provati Dola de Jong firma un’opera vincente che sembra travalicare i confini della “letteratura pura” per divenire vita vera, autentica, pulsante.
La scrittura stessa alterna uno stile scabro a improvvisi scorci lirici, come una brava regista Dola de Jong non lascia mai la presa dalla sua inquadratura principale: lo stato d’animo d’animo delle sue protagoniste che, man mano che la narrazione procede, diventa un groviglio inestricabile.
Lo spettro del dramma aleggia sin dalle prime righe e si intensifica allo scoppiare della guerra, che fa da contraltare alla tempesta del cuore. Sappiamo che De Jong non vuole raccontarci una storia di salvezza, speranza o redenzione, ma l’autrice è brava a lasciar scivolare leggera la penna sul dramma. L’albero e la vite in fondo non è una storia d’amore né una storia di guerra, ma uno splendido racconto di autodeterminazione al femminile; un argomento molto attuale di questi tempi.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: L’albero e la vite
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