La vestaglia del padre
- Autore: Alessandro Moscè
- Categoria: Poesia
- Anno di pubblicazione: 2019
Alessandro Moscè, poeta e saggista marchigiano, torna in libreria con La vestaglia del padre (Nino Aragno Editore, 2019) , un libro sul lutto, l’elaborazione del lutto e un’offerta votiva al genitore, che il tempo “ha rapito”.
La rievocazione della figura paterna si intreccia nei versi a luoghi, persone, ombre, vicende e soprattutto ad oggetti che la forza evocativa della parola e la musica struggente e rarefatta del canto lirico sublimano, pervadendoli di un’aura simbolica che conferisce a ciascuno di essi un’umile e potente sacralità.
Se è vero, come sostiene Jung, che tutte le civiltà, indipendentemente dalle credenze religiose, condividono rituali di salvezza simili tra loro, cosicché quando qualcuno muore, pur di salvarne il ricordo, si costruiscono e conservano dei simboli che vengono condivisi con tutti, i “pigiami ora ripiegati nei cassetti”, le “ciabatte custodite nella scatole”, “la borsa dell’acqua calda /sotto la vestaglia che indossa qualcun altro”. Per l’appunto la vestaglia, evocata fin dal titolo, “lasciata con una macchia di sugo nel colletto” e purtuttavia "regale", sono gli spiragli di una comunicazione che continua pur nel vuoto della mancanza e consentono, a chi resta, di custodire un contatto, di acquisire il mistero della morte nel dominio dell’esistenza quotidiana, anziché tentare di neutralizzarla con uno sforzo effimero di rimozione:
Mia madre toglie le giacche e i maglioni dell’inverno/ li ammassa nelle buste di plastica/e sfila di dosso un odore di gelsomino/ che non smette di circolare dalle ciglia al naso.
Seguendo un’ispirazione non dissimile da quella degli “Xenia” montaliani, sia nella struttura che nei contenuti tematici dei testi (si veda, ad esempio, la “coincidenza di treni locali/ per l’aldilà che precede l’ora di pranzo”) Moscè articola nei testi sequenze narrative contrassegnate da piccoli episodi di cronaca quotidiana, gesti e consuetudini umili e ordinari, personaggi connessi all’esistenza paterna, che suggellano, nella mancanza, la traccia indelebile che un uomo lascia dietro e intorno a se: di saggezza vitale, di coraggio nell’affrontare la vita e spenderne i talenti, anche quando essa è avvolta nel sudario di una malattia (esperienza che ha ulteriormente rafforzato, sia pure in epoche diverse, la comunione tra il padre e il figlio).
La peculiarità che contraddistingue i testi di questa raccolta rispetto all’ironia demistificante del modello montaliano e altri esemplari poetici scaturiti dall’esperienza del lutto e del distacco, ci appare manifesta soprattutto nella tensione agonistica di una parola che in forma di canto non cessa di ricercare con la mente e il cuore, tra vocazione all’infinito e coscienza lacerante del limite, “il seme dell’eternità” (un seme di matrice caproniana forse? Da cui germina un pianto che genera, anziché negarla, un’identità) nascosto nel buio “che non sa di Dio”, nel dolore, nell’assurda contraddittorietà della realtà umana, ostinatamente “non credendo che il nulla sia nulla.”
La vestaglia del padre, unta e regale, ricorda la toga virile che i padri nell’antica Roma porgevano ai figli al compimento dell’età adulta. Un lascito simbolico, di una vita che prosegue, di una continuità giurata sulle fondamenta di valori inscalfibili, di una virilità severa che i versi di Moscè, teneri e gravi, fedelmente incarnano:
Andrò a visitare il Palatino con questa giacca/ e ti mirerò nell’ombra…
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