Il tema del lavoro è una costante nell’opera di Luciano Bianciardi, ciò che avrebbe dato inizio alla sua attività di narratore sfociando poi nella Trilogia della rabbia la cui punta di diamante è costituita dal suo capolavoro, La vita agra. Impossibile non immaginare Bianciardi come l’uomo con la valigia, ovvero il trentaduenne che, nel lontano 1954, giungeva a Milano da Grosseto per lavorare presso la casa editrice Feltrinelli, appena fondata da Giangiacomo Feltrinelli, e iniziare una nuova vita.
All’origine della narrativa di Bianciardi c’è la tragedia di Ribolla, che sarebbe stata anche la ragione che lo avrebbe spinto, poco più che trentenne, ad abbandonare la realtà di provincia - moglie e figlio compresi - per cambiare vita avventurandosi nella metropoli che, tuttavia, sarebbe stata irta di ostacoli e problemi e non sarebbe stato il centro vibrante del lavoro culturale in cui aveva sperato.
Quando il giovane Luciano Bianciardi giunse alla stazione Centrale di Milano era il mese di giugno del 1954, in lui era ancora bruciante la memoria di quanto era accaduto il 4 maggio 1954, ovvero l’esplosione della miniera di Ribolla che uccise 43 minatori. A quei minatori Bianciardi aveva dedicato un’inchiesta di ben due anni, scritta a quattro mani con lo scrittore Carlo Cassola, intitolata I minatori della Maremma e pubblicata sul quotidiano L’Avanti!. In occasione del 1 maggio quell’inchiesta vale la pena rileggerla per commemorare la strage dei morti sul lavoro.
I “Minatori della Maremma” raccontati da Bianciardi e Cassola
Link affiliato
I minatori della Maremma, l’inchiesta svolta da Luciano Bianciardi e Carlo Cassola dal 1952 al 1954, si rivela come un’opera di drammatica attualità. Di recente è stata ripubblicata dalla casa editrice romana minimum fax a cura di Fabio Stassi, con una postfazione a cura di Antonello Ricci che ne ribadisce il valore come atto d’accusa.
Il 4 maggio 1954 una terribile esplosione uccise 43 minatori della località di Ribolla; nei giorni successivi la tragedia di Ribolla ebbe una forte eco sui giornali che parlavano di “tragica fatalità” che obbediva alla dura legge della miniera. Ma Luciano Bianciardi non era d’accordo, perché sapeva che non si trattava di una fatalità, né di una sciagura.
La causa, scriveva Bianciardi, era invece:
Alla consapevole inadempienza di precise norme di polizia mineraria. Il sistema di lavorazione a fondo cieco era in contrasto con l’articolo 9 del Regolamento di polizia mineraria.
Bianciardi imputava ai vertici della Montecatini, la società che gestiva la miniera, la causa di quanto accaduto. Il processo, nel novembre del 1956, si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati e il disastro fu archiviato come “mera fatalità”. In seguito la società Montecatini decise per la chiusura totale della miniera, la cui smantellazione completa durò ben cinque anni.
Nelle prime pagine dei Minatori della Maremma, il giovane Bianciardi era ancora convinto che il lavoro intellettuale potesse cambiare le cose:
Io sono con loro, i badilanti e i minatori della mia terra, e ne sono orgoglioso; se in qualche modo la mia poca cultura può giovare al loro lavoro, alla loro esistenza, stimerò buona questa cultura, perché mi permette di restituire, almeno in parte, il lavoro che è stato speso anche per me.
I minatori di Grosseto, che Luciano Bianciardi aveva a cuore, non sarebbero stati riscattati dalle pagine scritte né da una forma di giustizia umana. Per due anni, per redigere l’inchiesta, Bianciardi e Cassola avevano ascoltato le storie dei minatori maremmani, ascoltavano il loro dolore, erano stati testimoni delle malattie mortali provocate dal lavoro e delle loro misere vite non redente dalla fatica.
Quando, quel terribile 4 maggio, esplose il Pozzo di Camorra, si trattava di una tragedia annunciata. L’inchiesta si concluse, inaspettatamente, con un j’accuse che tuttavia non si tramutò in un atto di giustizia.
La strage di Ribolla nelle parole di Bianciardi
L’inchiesta dei Minatori della Maremma sarebbe stata pubblicata in volume nel 1956 dalla casa editrice Laterza. Tuttora rappresenta un classico della letteratura civile trasformatosi, purtroppo, in un’orazione funebre.
Era il primo libro di Luciano Bianciardi e anche il trauma che avrebbe inaugurato senza via di scampo la sua vocazione letteraria, che sarebbe tornata sempre sugli stessi temi con un’angoscia crescente: dal Lavoro culturale a La vita agra, pagine in cui avvertiva una rabbia bruciante nata appunto dalla disillusione, dallo scollamento tra gli ideali intellettuali e un mondo del lavoro fatto solo di sfruttamento e abnegazione.
I 43 minatori di Ribolla rappresentano ancora oggi un monito per le numerose morti bianche taciute e silenziate del nostro Paese, una strage invisibile che le parole di Bianciardi cercarono di rendere evidente perché facesse rumore. Nel libro il duo geniale Bianciardi-Cassola lascia che siano i volti segnati dalla fatica dei minatori a parlare, e a vendicarsi. La giustizia a Ribolla non trionfò; ma le parole restano.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Luciano Bianciardi e la tragedia dei minatori di Ribolla: la denuncia del lavoro che uccide
Naviga per parole chiave
Approfondimenti su libri... e non solo News Libri minimum fax Storia della letteratura Carlo Cassola Luciano Bianciardi Festa del lavoro (1 maggio)
Lascia il tuo commento